IL CONTROLLO DELLA QUALITÀ DEL CALCESTRUZZO: ASPETTI INASPETTATI

Dopo alcuni decenni di implementazione di Sistemi Qualità di tipo ISO 9000 (volontari) o di tipo FPC (obbligatori), una delle questioni più scomode da affrontare, anche in sede di audit, è la verifica del controllo della qualità nel suo complesso, che, se analizzato con interesse ed a fini di conformità e di reale miglioramento, rivela alcuni aspetti che, presenti da sempre, ma ufficialmente dormienti, paiono sorprendere a più riprese le diverse “parti interessate” che vi devono far fronte: produttori, tecnici, laboratori, enti di certificazione, valutatori e, teoricamente, anche i direttori dei lavori, ragionevolmente in tutt’altre faccende (i controlli d’accettazione) affaccendati.

Diamo quindi un’occhiata, non esaustiva, ad alcuni di questi aspetti.

1 – Frequenza dei prelievi

Andiamo subito al sodo: al punto 12 del prospetto 4 delle Linee Guida è chiaramente ed inequivocabilmente indicata una frequenza, che ammonta (!) a ben un prelievo ogni 1000 metri cubi. Ora, per un impianto che fa 4000 metri cubi al mese, ciò vuol dire un prelievo alla settimana: ancora poco? Sufficiente? Se consideriamo come punto di partenza lo “spirito della legge”, ossia i principi ispiratori dei normatori (degli anni Novanta), essi, consapevolmente o meno, erano orientati da questi e dai ben altri livelli produttivi di allora, e quindi possiamo pensare che andasse loro bene tale frequenza, in quanto, per esperienza comune del settore (sotto la guida di ATECAP), conoscevano la reale e consistente numerosità dei prelievi eseguiti dalle maggiori aziende, non solo e non tanto per rispettare la frequenza indicata, ma soprattutto per tener sotto controllo accettabilmente la produzione (costi e qualità). Ciò, poi, avveniva a mezzo di competenze tecniche che, per operare, necessitavano di una popolazione di campioni, gestione per famiglie o meno, necessaria e sufficiente per applicare utilmente uno dei metodi di controllo statistico disponibili (cusum, medie mobili, standard, ecc.): ecco quindi la presenza abituale di una figura operante a tempo pieno per i prelievi, che nelle Linee Guida è chiaramente individuata e definita come “Addetto al Laboratorio”.

2 – Volumi limitati

Ora, il problema si presenta in tutta la sua peculiarità quando ci troviamo di fronte a impianti che i 1000 metri cubi li fanno non in una settimana, ma forse in un mese e talora in un anno: volumi che, secondo il prospetto 4, imporrebbero un numero di prelievi rispettivamente di uno al mese o di uno all’anno. Se pensiamo poi che, nella probabile assenza di valide correlazioni proprio a causa della rarità dei prelievi, la popolazione dei campioni verrebbe ulteriormente divisa per famiglie (almeno classi di resistenza), ci troviamo ad avere tre o quattro campioni all’anno, nella migliore delle ipotesi, per tenere sotto controllo la produzione di una famiglia di calcestruzzi e quindi per disporre della conseguente riprogettazione delle composizioni. Il tutto escludendo l’eventualità di variazioni nell’impiego di inerti.

Allora? La considerazione che ci aiuta nel proporre un indirizzo di soluzione è quella relativa al concetto di “frequenza”: la norma dà un valore, è vero, ma non ci impedisce di fare più cubetti, tanti quanti necessari a controllare i requisiti richiesti, a prescindere dal prospetto ed alla sua valenza minimale di riferimento. La norma, anzi, ci impone chiaramente di farlo in altri punti, il cui dettato ribadisce la valenza “minimale” del prospetto 4. Vediamoli.

3 – Valutazione delle conformità (7.5)

La produzione di calcestruzzo deve essere controllata dal produttore stesso al fine di verificarne la conformità delle prestazioni reali rispetto quelle richieste.

Come può il produttore controllare ragionevolmente la produzione al fine di verificarne la conformità delle prestazioni reali rispetto quelle richieste, con tre prelievi l’anno, a distanza di mesi o, peggio, concentrati nello stesso giorno? Occorrerebbe almeno un tecnologo col… cubetto di cristallo!

Ma non basta.

4 – Controllo statistico (§ 7.6)

 La resistenza alla compressione va valutata sulla base di uno strumento di analisi statistica che consenta, in via continuativa, la definizione della resistenza media e la inequivocabile determinazione dello scarto quadratico medio.

Per calcestruzzi normali appartenenti alle classi di resistenza da C20/25 fino a C50/55, il campionamento, le prove e il controllo statistico possono essere effettuati su miscele singole o su famiglie di calcestruzzi per le quali siano state individuate idonee leggi di correlazione. L’uso delle famiglie di calcestruzzo è limitato al controllo in continuo della produzione.

Qui il tecnologo non può provare ad indovinare! La matematica non consente opinioni che prescindano dalle regole e dai risultati che le formule esprimono. Non entriamo qui nell’argomento con pretese scientifiche, ma ci limitiamo solo ad accennare che sono i due noti parametri di “varianza” (il quadrato dello “scarto quadratico medio”, mediamente attorno a 5 MPa) e di “confidenza”, che nel calcestruzzo è propriamente pari al 95%, con k a 1,64. Sono essi i due parametri che ci consentono di “sperare” nei nostri calcestruzzi “Rck”, a patto che la popolazione di campioni sia accettabile per un serio ed affidabile controllo statistico della produzione: risparmio i calcoli scientifici, ma parliamo di almeno di decine di prelievi. Non è infatti vero che la dimensione del campione (numero dei prelievi) vada proporzionata alla dimensione della produzione sotto controllo (pochi metri cubi, pochi cubetti) e le leggi della statistica lo dimostrano: il volume produttivo non ha nessuna influenza sul numero di cubetti necessario per ottenere un campione rappresentativo (e 10000 metri cubi lo sono). Un campione di 100 cubetti può, se scelto bene, rappresentare con la stessa attendibilità e gli stessi limiti la produzione di 1.000 metri cubi, di 10.000 o di 100.000.

5 – Non conformità (§ 8)

Su di un apposito registro verranno riportate le non conformità, rispetto ai contenuti delle presenti Linee Guida, che risultassero al produttore stesso. In particolare, quelle attinenti ai seguenti punti:

(…)

– inadeguatezza delle ricette
– insufficiente miscelazione
– consegna di calcestruzzo difforme dalle prescrizioni
– insufficienza nel numero delle prove
– mancata applicazione di tecniche di controllo statistico
– resistenze non conformi.

In caso di applicazione di un Sistema Qualità aziendale certificato, le non conformità verranno registrate e gestite secondo le procedure del Manuale della Qualità applicato.

In caso di assenza di un Sistema Qualità aziendale certificato, il registro delle non conformità riporterà comunque, per ogni non conformità: i provvedimenti relativi assunti, anche per evitarne il ripetersi; l’indicazione del responsabile della loro assunzione ed i tempi di intervento; individuando, ove ne ricorrano le condizioni, la eventuale diversa destinazione del prodotto non conforme.

La tenuta del registro delle non conformità spetta al Direttore, o a persona da questi delegata che abbia comunque il potere di definire sia i provvedimenti che la persona responsabile della loro applicazione.

Sorvoliamo sulla complessiva ed inascoltata bellezza del paragrafo riportato in estratto qui sopra, ma, per esempio, se faccio un prelievo ogni tre mesi, come verifico l’efficacia di una modifica alle ricette? Aspetto tre mesi? Ciò vale anche per gli altri parametri che la norma richiede siano da considerare come “Non Conformità” (ricordiamo che una “Non Conformità” pregiudica il mantenimento della certificazione, se non accompagnato da adeguata “Azione Correttiva”).

Segnaliamo infine che una delle Non Conformità indicate dalle Linee Guida è proprio la “mancata applicazione di tecniche di controllo statistico”. Qui si conclude il giro: se non faccio abbastanza cubetti non ho un degno controllo statistico, se non ho un degno controllo statistico mi trovo (almeno) in uno stato di “Non Conformità”, altri rischi a parte.

6 – Conclusione

Altri ancora sono gli aspetti “dormienti” (ma ben noti ai più) del controllo del calcestruzzo che dovrebbero essere risvegliati: qui mi limito a segnalare un’assurdità molto legata al tema che abbiamo appena sin qui affrontato e che, se possibile, ne esaspera le conseguenze negative. Parliamo del “Controllo d’Accettazione”, quello di competenza del Direttore dei Lavori: non c’entra niente con l’autocontrollo di produzione di cui stiamo parlando, ma lo influenza negativamente.

Infatti, prevede, come noto, due tipi di controllo, A e B. Quello di tipo B non è quasi mai applicabile o applicato (e poi anche lì, la statistica…), mentre quello di tipo A, pur quando fatto bene, cioè alla presenza del Direttore dei Lavori o del suo incaricato e senza aggiunte d’acqua dopo fatti i cubetti, non risulta affatto rappresentativo dei lotti (ossia delle diverse autobetoniere) scaricati in cantiere e destinati alle fondazioni, alle travi, ai pilastri di una costruzione (non ne parlo certo per primo, ma gli allarmi restano inascoltati).

Per ultimo citiamo l’aspetto storicamente più dormiente di tutti, colonna portante del già traballante “Controllo d’Accettazione”: i 28 giorni, da un po’ di tempo pure dilatati a 45 per esigenze troppo fraintese. Bene, già ai tempi in cui il calcestruzzo preconfezionato era agli albori e nei cantieri la carriola era il mezzo di principale di movimentazione, quelle quattro settimane di tempo tra il getto delle fondazioni e l’andare a vedere la resistenza del calcestruzzo mettevano a repentaglio almeno le due successive solette e i pilastri che le sostenevano. E oggi?