Qui di seguito, nel racconto di Scalone, i drammatici giorni all’inseguimento dei greci. Come al solito, la narrazione è molto più stringata di quella di Dante, con meno riflessioni e testimone di una condotta più “solitaria”. Ma la resa drammatica è la stessa, nel procedere sincrono degli avvenimenti narrati. Notevoli la descrizione della giornata passata sotto il tiro diretto dei greci e la riflessione che Scalone riporta verso la fine, circa lo scopo di quella carneficina: ancora stordito dai dolorosi echi della battaglia, riesce a fornire una sintetica, ma valente, analisi storica dei fatti appena narrati.
Lo stralcio è ampio, ma ne ritengo il contenuto meritevole di conoscenza, quale valida prospettiva di narrazione degli eventi.
La mattina del giorno di Pasqua, il 13 aprile dormimmo fino a tardi, poi una tromba suonò la sveglia tutti ci alzammo e ci preparammo a ricevere il rancio. Proprio mentre eravamo intenti a consumare il pasto, giunse un’autocolonna con sopra tutte le biciclette del 4° reggimento bersaglieri ciclisti.
Appena finito di mangiare, ci diedero l’ordine di andare a ritirare ognuno la propria bicicletta, di portarla presso la propria tenda, di disfarla, di affardellare biciclette e di tenerci pronti a partire. Portammo le biciclette sulla strada appoggiandole per due, una contro l’altra. Mentre aspettavamo l’ordine di partenza, radio fante comunicava che la partenza era per il fronte greco. Pensavamo di ritornare nuovamente sul Monte Kalase, vicino a Pogradec. Alle quindici di quel giorno di Pasqua ci rimettemmo in marcia in sella le nostre biciclette.
La notte dormimmo a Pogradec, mentre la mattina del 14 aprile ci rimettemmo in marcia: ma tutti i ponti, anche i più piccoli, erano stati minati e fatti brillare dai greci in ritirata.
Alle due di notte del giorno 15 aprile passammo dalla città di Coriza, deserta e muta e con le luci accese, esattamente come l’avevamo lasciata nel corso della ritirata di novembre. I magazzini militari erano ancora fumanti, perché i greci, prima di andare via, li avevano incendiati.
Alle prime luci dell’alba del giorno arrivammo a Drenova, circa 20 km dopo Coriza, dove finisce la pianura e incomincia la collina, lungo la strada che va a Erseke. In quel punto i nostri esploratori erano stati fermati a colpi di fucile dei greci. Il capitano, allora, ci fece lasciare le biciclette e ordinò di caricare tutto il fardello in spalla per proseguire a piedi. Andando avanti, un bersagliere esploratore di punta intravide qualche cosa assomigliava a una postazione al margine della strada, proprio dove il terreno cominciava ad essere collinoso. Il bersagliere sparò un colpo di fucile contro quella postazione e fu allora che i greci risposero con violenza con tutte le armi a loro disposizione. Ci disponiamo a ventaglio sul ciglio della strada che costeggiava un burrone, dove meglio ci potevamo riparare e rispondere ai greci con le nostre armi.
Così per tutta la giornata restammo fermi, eccetto piccoli spostamenti per modificare il nostro appostamento. Il camion che avrebbe dovuto portarci da mangiare era stato colpito dall’artiglieria greca e noi dovevamo mangiare gallette e scatolette di riserva. La sera appena fece buio andammo avanti, arrivando al margine della collina dove abbiamo poi trovato un grosso fossato anticarro, che non si poteva attraversare neanche a piedi. Quindi tirammo fuori i picozzi, scavando una scaletta nella terra e da lì passammo in fila per uno. L’attendente del capitano scivolò, piombando nel fosso e, credo, rompendosi una gamba, perché non l’ho più visto. Dopo aver passato il fossato ci si pone in fila per squadra, distanziati di circa dieci metri l’una dall’altra. Il capitano era davanti al centro, seguito da una squadra.
Questo spiegamento ordinato dal capitano non era condiviso da tutti e così si andava avanti con la paura addosso di trovarci di fronte al nemico da un momento all’altro. Andavamo avanti con precauzione, gli occhi aperti, le orecchie tese e ognuno di noi scrutava l’orizzonte nella notte, attento ad avvertire ogni piccolo suono o movimento. Ad un certo punto, raggiunto un cucuzzolo, sentimmo una voce della quale non si capì il significato. Tutti ci buttammo per terra, tranne il capitano, che era abbastanza anziano e duro di orecchie e che non aveva sentito nessuna voce, continuando a ripetere di andare di andare avanti, ché non c’era nessuno.
Nel frattempo, una raffica di mitraglia sfrecciò sopra le nostre teste, seguita da un nutrito lancio di bombe a mano. Noi rispondemmo al fuoco, mentre il capitano e la squadra che lo seguiva rimasero nel bel mezzo tra noi e i greci. Fortunatamente i greci, al primo impatto, piantarono tutto e scapparono, ma purtroppo il capitano rimase leggermente ferito e dovette lasciare il comando della compagnia all’unico tenente rimasto nella nostra compagnia. Siccome i greci erano scappati, andammo avanti, trovando alcune armi e i letti ancora caldi.
Continuiamo ad andare avanti per circa un chilometro e proprio dopo la cresta di quella collina trovammo un altro fossato, oltre il quale si udivano le voci di persone e il nitrito di cavalli e di muli. Ci siamo disposti lungo il margine di quel fossato, erano le tre della notte e nel buio non si vedeva niente, ma, dal fracasso che si udiva, era facile immaginarlo. Un rumore di macchine e cose che venivano caricate e sopra c’era anche un mortaio che sparava continuamente: si sentiva anche il rumore di chi prendeva le granate dal mucchio e le calava nella canna del mortaio. E poi cingoli di carri e macchine che arrivavano e partivano. I colpi sparati dal mortaio ci passavano sopra, le briciole della polvere dei lanci delle granate ci cadevano addosso. Sparavano in direzione del punto nel quale si aspettavano che ci trovassimo, perché, evidentemente, l’avamposto greco che avevamo affrontato poco prima aveva segnalato la nostra posizione. Noi però eravamo avanzati ulteriormente ed adesso ci trovavamo lì, a meno di cento metri da loro.
Tutta la compagnia era in posizione, con le armi puntate e pronte a fare fuoco su di loro, ignari della nostra presenza. Purtroppo, il nostro comandante ordinò di non sparare: il posto era un passo obbligato, si chiama Passo Drenova e rimanemmo lì fino alla mattina seguente, quando ci rendemmo conto che i greci erano si erano ritirati e davanti a noi era rimasto solo il materiale che non avevano potuto portarsi dietro.
Era il 16 aprile 1941 e quel giorno rimanemmo fermi a Passo Drenova, finché non arrivò il grosso del nostro battaglione, mentre gli altri due battaglioni operavano uno a destra e l’altro a sinistra di esso. La mattina del 17 aprile, il nostro battaglione si mosse lungo la strada per Erseke e, dopo aver percorso circa 40 chilometri, entrammo nel raggio d’azione dell’artiglieria greca.
Avevamo nel frattempo raggiunto il paese di Erseke, un paese agricolo molto importante e molto frazionato. La sera rimanemmo arroccati nei dintorni di Erseke e la mattina dopo si riprendeva l’avanzata. Subito dopo quel paese c’era circa un chilometro di pianura, mentre il terreno attorno era montagnoso e l’artiglieria greca era appostata lì. Era in quel punto che ci aspettavano: ormai per loro la guerra era perduta e i tedeschi, da est, avevano già occupato Atene. Si erano appostati lì, in quel susseguirsi di colline, con il fermo proposito di darci l’ultima lezione. Spinti dal desiderio di lasciare un segno nella guerra italo greca, i nostri alti ufficiali vollero che ci spingessimo contro le postazioni greche. I greci erano in ritirata, sarebbe bastato attendere qualche giorno e sarebbero andata via definitivamente. Non fu così!
La mattina del 18 aprile ci ordinarono di attraversare la pianura, allo scoperto e sotto il tiro dell’artiglieria greca. Iniziamo a passare uno ad uno, i greci intanto prendevano di mira con i cannoni ogni singolo bersagliere che corresse nella pianura. Era una macabra lotteria, una sorta di tiro al piattello e ogni tanto qualcuno di noi cadeva colpito dalle granate. Io, di prima mattina, incominciai a girare per il paese. La gente era tutta chiusa in casa. Passando, vidi una casa sventrata da una granata e guardai dentro, rendendomi conto che era una bottega. Dentro trovai tante caramelle e biscotti, riempii il tascapane e andai via. Nel frattempo, temporeggiavo, perché non mi andava di far parte di quel tiro al bersaglio, ma la sera all’imbrunire, anch’io attraversai correndo la pianura. Però quella sera rimasi diviso dalla mia squadra e andai a rimpiazzare i mitraglieri di un’altra squadra. La sera e tutta la notte servì per ritrovarci e riorganizzarci. Avevamo raggiunto Borove, una borgata situata all’inizio della salita, ai piedi della montagna, dopo la pianura di Erseke e le batterie dell’artiglieria greca erano qualche centinaio di metri dopo. Alle prime luci del 19 aprile il nostro battaglione, comandato dal maggiore Mennuni, si rimise in cammino lungo la costa di quella montagna.
Quella mattina c’era nebbia che limitava fortemente la visuale e, dopo che tutto il battaglione si era allungato lungo la collina, il maggiore ordinò di avanzare frontalmente. Ci addentrammo in quelle insenature collinose, ma ad un tratto la nebbia svanì e i greci erano ancora lì ad aspettarci. Iniziò un fuoco incrociato, ci sparavano da tutti i lati, fu un momento drammatico: ci siamo buttati a terra, così, dove e come ci trovavamo, per toglierci dal facile bersaglio del nemico. Chi si trovò a portata di qualche sasso o qualche fosso vicino ne approfittò per mettersi al riparo. Io mi trovavo vicino ad un cespuglio e mi ci sono cacciato dentro. Lì però non mi sentivo al sicuro, la battaglia infuriava e, prima di sparare un colpo rivelando la mia posizione, dovevo cercare di mettermi in una posizione più riparata dalle pallottole.
Restando sdraiato per terra raccolsi tutte le pietre che si trovavano a portata di mano, in modo da costruire un muretto a forma di ferro di cavallo. Quel muretto mi consentì di ripararmi e di piazzare il fucile mitragliatore e iniziare a sparare verso le postazioni greche. Loro non si vedevano, erano appostati ben nascosti nella sommità della collinetta sopra di noi, in posizione dominante. Ad un certo punto notai la fiamma della bocca di fuoco di una mitraglia e allora puntai il mio fucile mitragliatore e sparai alcuni caricatori. A quel punto anche loro mi individuarono, puntandomi contro una loro mitragliatrice e sparando di continuo, finché non si furono accertati che da lì non proveniva alcun altro sparo. In verità io non sparavo più per far credere di essere morto, mentre invece mi ero appiattito addosso a quel muretto con tutto il corpo e le pallottole fischiavano attorno, in parte bloccate dal muretto, altre lo sfioravano, passando sopra la mia testa e facendo svolazzare il piumetto di penne di pavone fissato sull’elmetto. Rimasi immobile, perché era impossibile, dalla mia postazione, contrastare la mitragliatrice greca; così ogni tanto infilavo la mano nel mio tascapane, tiravo fuori caramelle e biscotti che avevo trovato a Erseke e non sparai più, nemmeno quando il maggiore, che era ben accostato ad un bel masso, molto grande e distante circa cento metri da me, continuava a gridare verso di me, chiedendomi perché non sparassi. Gli risposi che si era inceppato, anche se, a quel punto, nessun altro sparava, neanche il nemico, non vedendo più nessuno muoversi.
Verso mezzogiorno, il mio caro amico Sireus, che si trovava circa cinquecento metri più avanti di noi, vicino al tenente che comandava la compagnia, fu da questi comandato di portare un biglietto al maggiore. Lo vidi che veniva correndo come una lepre, mentre tutto intorno a lui piovevano pallottole e io mi stringevo il cuore, guardandolo con il presentimento di vederlo stramazzare al suolo da un momento all’altro, mentre lui continuava la sua corsa sfrenata. Quando arrivò ad una cinquantina di metri da me si fermò dietro un sasso per riposarsi e per ripararsi nelle pallottole…
Ad un certo punto riuscii ad appisolarmi qualche attimo, vinto dalla stanchezza del sonno perduto nella notte precedente: mi addormentai come se fossi coricato in un bel letto di piume, ma in realtà mi trovavo, da più di mezza giornata, con la pancia a terra, indolenzita e dura come una pietra per tutte le caramelle che avevo mangiato e attorno le mitragliatrici greche, pronte a farmi secco al primo cenno.
Verso le 15 di quel pomeriggio fui svegliato dalla terra che tremava e dal boato delle bombe che scoppiavano. Alzai gli occhi verso il punto dove si trovavano i greci e vidi quattro nostri aerei che sorvolavano le postazioni nemiche e che buttavano bombe e mitragliavano: erano venuti in nostro soccorso, per salvarci da quella situazione di stallo e per circa un’ora continuarono a buttare bombe e a mitragliare.
Intanto il maggiore ordinò di andare avanti, andai avanti anch’io, trovai il mio caposquadra, e poiché la notte non sarebbe tardata ad arrivare, decidemmo di non proseguire. Così fecero tutti gli altri: l’ordine del maggiore era caduto nel vuoto. I greci, a seguito del bombardamento, si erano ritirati forse rompendo le righe. Di fatto, il loro comando generale non esisteva più.
Alla fine, venne la sera di quel brutto giorno, teatro di una violentissima battaglia, nella quale tanti bersaglieri erano caduti. Ora, del nemico non si sentiva più nulla: la mia compagnia si riunì per contare i morti e feriti ed io me ne stavo in disparte, mentre tra loro parlavano di chi fosse morto.
I morti e i feriti di quella giornata, nella sola settima compagnia, la nostra, furono quindici. Lo stesso colonnello Scognamiglio, comandante del reggimento, era stato gravemente ferito da una granata mentre si stava trasferendo a Erseke ed era stato trasportato all’ospedale; ma poi si seppe che era morto, guadagnandosi per il suo sacrificio la medaglia d’oro al valor militare e l’agognata gloria.
L’indomani, giorno 20 aprile, rimanemmo fermi su quella altura, mentre, nel frattempo, anche noi venimmo a sapere che la Grecia era stata attaccata dai tedeschi dalla frontiera Jugoslavia e della Bulgaria: ora si trovavano nei dintorni di Atene e l’esercito greco era in disfatta e allo sbando. Intanto Radio Fante faceva girare tutte queste notizie a gruppetti e noi andavamo parlando come storditi, smaltendo le fatiche e i colpi del giorno precedente.
Quelle enormi perdite umane forse erano state pretestuose: molti di noi pensavano che ce le avessero volute imporre i nostri comandanti, per desiderio di gloria e perché convinti che l’unico modo per poter aver riconosciuto il proprio valore era quello di far trucidare tanti bersaglieri, a dimostrazione di una grande battaglia. Invece, così come fu fatto, fummo quasi mandati allo sbaraglio, contro un nemico ben piazzato ed in posizione, con tanti uomini e armi e per di più con una grande rabbia addosso. Loro si stavano ritirando non solo perché battuti dall’esercito italiano, ma anche perché nel frattempo la Grecia era stata attaccata dalle colonne corazzate tedesche: mentre loro combattevano contro gli italiani in territorio albanese, i tedeschi stavano occupando la loro patria.
Ora tutto taceva: i greci, dopo averci assestati quegli ultimi colpi, erano andati via, alle loro case. Ma in noi c’era ancora lo strepitio delle mitraglie, dei cannoni e dei mortai del giorno prima e, ancora più doloroso, il triste ricordo dei tanti compagni morti, con i loro nomi che si allineavano nelle nostre menti e questo ci provocava non poca rabbia.
Si parlava anche di una prossima partenza per andare alla sfilata di Atene insieme ai tedeschi. Infatti, la sera venne un’autocolonna di camion che ci caricò, portandoci nella città di Coriza. L’indomani tutti coloro che furono scelti per questa missione, tra i quali anch’io ed altri miei compagni, furono portati al magazzino vestiario.
Lì vicino non c’erano anche i bagni: ci levammo i panni di dosso, buttandoli a mucchio, ci lavammo e indossammo i nuovi. In quei giorni a Coriza c’erano sei battaglioni diversi, un battaglione per ogni arma, che si stavano preparando per la sfilata ad Atene: un battaglione di bersaglieri, uno di fanteria, uno di alpini, uno dei carabinieri, uno dei granatieri e uno di camicie nere.
XXVI battaglione
1a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
4a compagnia mitraglieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
Compagnia comando di battaglione
XXIX battaglione
5a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
6a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
7a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
8a compagnia mitraglieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
Compagnia comando di battaglione
XXXI battaglione
9a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
10a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
11a compagnia fucilieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
12a compagnia mitraglieri
1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
Compagnia comando di battaglione
Compagnia motociclisti
Il papà, caporalmaggiore, comanda la 3a squadra del 1° plotone della 4a compagnia mitraglieri del XXVI battaglione. Sarà promosso sergente il 26/7/1942.
Testo tratto dal diario del ten. Sergio Quaglino
Testo tratto dal diario del bers. Luciano Scalone
13 aprile! Chi può dimenticare questa data? Mentre ovunque nel mondo cristiano si inneggia al Cristo risorto, qui la Pasqua è ancora una delle tante giornate di passione e sangue. Tutto l’esercito italiano d’Albania scatta oggi all’offensiva su tutto il fronte, dal lago d’Ocrida all’Adriatico con tutto l’impeto dei suoi mezzi e la determinazione dei movimenti accuratamente predisposti e concepiti. Ha inizio così un movimento di avanzata generale che durerà circa dieci giorni, sino al momento in cui all’esercito greco non rimarrà altra salvezza che la resa incondizionata. Al 4° bersaglieri, che rappresenta il reparto più esterno dell’ala marciante della IX armata, è affidato il compito di punta avanzata di tutto lo schieramento, contando essenzialmente sulle virtù caratteristiche dei bersaglieri: ardimento, velocità ed eroismo, sino al sacrificio.
Appena viene dato l’ordine di avanzata, una colonna di autocarri, messi a disposizione dal comando di corpo d’armata di sede a Librashd, carica velocemente le biciclette che erano rimaste tutto l’inverno all’aperto in un prato della stessa località e li riporta in linea, affinché una buona parte dei reparti possa disporre anche di questo mezzo di trasporto. E i bersaglieri riprendono le biciclette, le vecchie gloriose biciclette, anche se un po’ arrugginite, anche se qualcosa non è perfettamente a punto e avanti contro il nemico. Avanti giovani di leva, avanti i trattenuti, avanti richiamati del ‘16, del ‘, del ’10, anche se le gambe si sono un po’ intorpidite, anche se la sella sembra ora troppo dura, anche se da parecchio si è persa l’abitudine di andare in bicicletta, su quelle biciclette… Avanti, dunque, anche se la via sarà segnata ancora di sangue: tutte le vittorie i bersaglieri le hanno raggiunte a prezzo di eroismi e sacrifici.
Il colonnello Scognamiglio marcia in testa al reggimento. Non si contano più le veglie, le soste, gli ostacoli da superare, da aggirare, sempre sotto il fuoco del nemico, pur di proseguire. Sono dieci giorni di avanzata continua, ma soprattutto di furiosi combattimenti, poiché il nemico non si è lasciato sorprendere ed ha predisposto anche un ripiegamento ordinato, sperando di fermare gli italiani forse nella strettoia di Ponte Perati. Così, sempre combattendo accanitamente, i greci ripiegano a poco a poco, cercando di ritardare la nostra avanzata, sia con un potente appoggio di artiglieria e mortai, sia con le divisioni di retroguardia, sia anche con numerose interruzioni, già da tempo predisposte, facendo saltare dietro di sé ponti e passerelle, e ritirando tutto il materiale possibile. Le divisioni lasciate a retroguardia sono costituite dalle migliori truppe greche che, munite di armi automatiche, mortai, pezzi anticarro e poste a guardia dei nodi stradali e delle più rovinose interruzioni, cercano sino all’ultimo di permettere di condurre in porto il ripiegamento dell’intero esercito greco. Questo per dire quale barriera di ferro e di fuoco si presenta davanti ai bersaglieri, i quali ad ogni costo devono raggiungere il confine greco il più celermente possibile.
Il giorno 15 aprile, il 4° bersaglieri entra per primo a Coriza, la cittadina che aveva abbandonato come ultimo nel novembre scorso. Dopo una giornata di sosta forzata, sotto il tiro rabbioso dell’artiglieria nemica che spara continuamente e dopo una notte sotto la pioggia, il 17 aprile l’avanzata prosegue. Si attraversa la piana di Coriza, sempre sotto il fuoco dell’artiglieria che batte tutta la zona; il terreno paludoso e fradicio di pioggia ci salva da qualche proiettile che affonda nel fango, inesploso. Si raggiunge Quafa e Quarrit, ove ci si appronta a difesa e si trascorre la notte ancora sotto la pioggia. Il 18 aprile si raggiunge Erseke, sempre combattendo accanitamente. Con quale animo, con quale entusiasmo e commozione si ripassa per quelle valli che a novembre erano state teatro del nostro sfortunato valore, quelle località che avevamo dovuto abbandonare davanti alla preponderanza del nemico e nelle quali tanti bersaglieri caduti avevano atteso fiduciosi che compagni d’armi tornassero sul luogo del loro sacrificio!
Ed oggi sono tornati. Se anche ora non c’è tempo per andare a cercare negli improvvisati cimiteri di guerra, nelle tombe isolate e nei tumuli sconosciuti le salme dei bersaglieri morti o dispersi all’inizio dell’inverno, pure risentiamo che essi ci sono vicini e ci indicano la via della vittoria. Purtroppo, questa via è ancora cosparsa di sangue. Morti e feriti segnano il cammino della nostra avanzata, ma i bersaglieri attaccano, contrattaccano continuamente ed avanzano. Il 19 aprile il reggimento prosegue verso Borove, ove a quota 1050 sostiene la più accanita battaglia di questa primavera. I greci ci prendono d’infilata nel canalone e ci obbligano a fermarci. Alle undici viene dato l’ordine di proseguire, ma l’avanzata significa una morte sicura. Un reparto di milizia tenta il passaggio: nessuno torna indietro.
Intervengono i nostri aerei che iniziano un bombardamento sulle posizioni nemiche. Ciononostante, il fuoco delle artiglierie greche continua rabbioso e causa continue perdite. Alle diciotto, il colonnello comandante è ferito da un colpo di mortaio. Siamo però alla fine. Dopo un’ultima notte d’inferno, la resistenza greca è finalmente spezzata. Il nemico è in fuga ed i nostri bersaglieri li inseguono, mentre la compagnia motociclisti, più veloce, raggiunge Ponte Perati, ove si incontra con le colonne tedesche. La vittoria è raggiunta. Ai greci, che di fronte all’avanzata delle nostre truppe operanti in cooperazione con le truppe tedesche, si sono visti ad un dato momento preclusa ogni via di scampo, essendo andata in frantumi quella che essi speravano essere la linea di resistenza Jonio-Egeo, non rimane che scegliere tra la distruzione o la resa. Il 22 aprile essi si arrendono senza condizioni.
Termina così la Campagna d’Albania, con un nuovo serto di gloria per il 4° bersaglieri, citato due volte in quei giorni dal bollettino di guerra per il suo valore ed il suo magnifico comportamento.
Il pomeriggio del 23 aprile 1941, le armate greche si sono ormai tutte arrese e i rappresentanti dei tre eserciti, tedesco, italiano e greco, si incontrano a Salonicco per firmare l’armistizio. I delegati greci propongono però di incontrare tedeschi e italiani in due distinte sedi, poiché, secondo loro, i tedeschi sono entrati in territorio greco prima della resa e quindi l’armistizio con loro va sottoscritto in Grecia, mentre le truppe italiane, quando i greci si arrendono, sono ancora in territorio albanese e quindi è lì che l’armistizio va firmato. Ciò secondo gli usi militari e nonostante il disperato tentativo italiano di raggiungere il territorio greco prima della cessazione delle ostilità, fatto che ha prodotto l’inutile sacrificio di gran parte delle vittime di quella campagna. Sono i tedeschi a convincere i rappresentanti greci che la loro richiesta, pur ragionevole, riveste solo aspetti formali.
Entro il 30 aprile, le truppe italo-tedesche completano l’occupazione della Grecia. Gli italiani raggiungono le località loro assegnate e, nonostante i tanti e terribili sacrifici, lo fanno da una sorta di porta secondaria, quasi abusivamente, mentre i padroni di casa sono solo i “vincitori”, che hanno avuto in realtà il merito militare del solo colpo di grazia ad un esercito, quello greco, che, già stremato dal lungo e aspro confronto con gli italiani, nel tentativo di scalzarli dalle posizioni assunte dopo il ripiegamento, ha gettato tutte le sue ultime, disperate energie nel riversare tutto il fuoco possibile sulla nostra avanzata allo scoperto.
Dopo le Alpi occidentali, un’altra vittoria umiliante per i nostri poveri e valorosi soldati, i quali, attraversando le strade greche, ai posti di blocco sono fermati e controllati dai soldati tedeschi, che li osservano, non come uomini e alleati valorosi, come furono, ma piuttosto come soggetti da tollerare, come poveri soldati mogi e impolverati, non molto diversamente da quanto riservato ai prigionieri greci, che camminano verso i campi di concentramento.
In questo contesto, c’è stato chi, per quanto umile e senza gradi e non limitandosi ai consueti sberleffi, si è ribellato, come ci racconta Giancarlo Fusco nel libro “Guerra D’Albania” (Feltrinelli 1961) nell’episodio intitolato “Il soldato Sanna”. Eccolo di seguito, riportato nel testo integrale.
Sulla strada fra Gianina e Prevesa, un richiamato sardo del ’12, certo Sanna, alto appena da non essere riformato, quasi più largo che lungo, dalle sopracciglia d’ebano confuse con l’attaccatura dei capelli, si staccò un momento dalla colonna in marcia, per dare mezza pagnotta a due bambini seminudi, dagli occhi pieni di spavento, stretti sulla porta di un casolare. C’era un tedescone della Feldpolizei, in quei pressi, e il gesto dell’italiano non gli piacque. “Nichts Schwanke!” niente debolezze, gridò il nazista, e con una sberla fece rotolare lontano, nella polvere, la mezza pagnotta.
Il soldato Sanna, dopo un attimo di perplessità, digrignò i denti. Lo stridore dei suoi forti molari fu udito dai compagni che gli stavano sfilando alle spalle, a cinque metri di distanza. Poi, il piccolo sardo urlò con tutto il suo fiato: “Era mio, il pane!”
Quindi lo si vide arrampicarsi al tedesco, come ad un olmo, stringergli il collo con le braccia, e la vita con le gambe, frantumargli letteralmente la faccia con una tremenda serie di testate. Dopo aver tentato disperatamente di liberarsi, il tedesco crollò nella polvere. Il sardo non mollò la presa. Gli restò abbrancato, a cavalcioni, anche per terra, continuando a demolirgli furiosamente il naso, le labbra e le sopracciglia di paglia. La fronte bassa e scura dell’italiano, intrisa di sangue, contusa, lacerata dai denti del gigante atterrato, batteva e batteva, come un martello.
“Era mio, il pane!”
Sanna ripeteva il suo urlo, mentre quattro o cinque commilitoni cercavano, mettendocela tutta, di staccarlo dalla preda. Il tedesco emetteva muggiti gorgoglianti. Il sangue gli colava a rigagnoli sulla pettorina metallica. I suoi stivali a sorbettiera scalciavano nella polvere, sempre più fiacchi.
Il fante sardo, con la faccia sporca del suo sangue e dell’altro, fu portato di fronte al comandante di battaglione.
“Cos’hai fatto, disgraziato!” gridò il maggiore. “Per poco non lo ammazzavi! Un tedesco! Figurati ora che cosa succede!”
“Era mio, il pane.”
“E con ciò? Lo sai che per mezza pagnotta finisci in galera?”
“Ci vado volentieri. Ma il pane non era né di Mussolini, né di Hitler, né vostro, signor maggiore! Era mio. E io in Sardegna ci ho due bambini!”
La campagna che Mussolini e soci avevano stimato come una facile passeggiata si è conclusa con un bilancio così pesante, da compromettere seriamente la nostra efficienza militare per gli anni successivi e sugli altri ben più impegnativi fronti. A fine maggio, al dittatore, fu presentato il conto di quella guerra, che avrebbe pagato solo quattro anni dopo, insieme ai conti di tutti gli altri fronti, compreso quello interno della servitù al nuovo nemico:
13.755 morti
50.874 feriti
12.368 congelati
52.108 ammalati
3.914 dispersi
21.153 prigionieri
(Wikipedia)
Per quanto riguarda il soldato Sanna, non ci è dato sapere quale sia stata la sua sorte: ci piacerebbe pensare che sia sopravvissuto alla guerra e che abbia potuto raccontare ai figli la sua storia, così come ci immaginiamo l’ufficiale tedesco raccontare la sua, di storia, ai figli che gli chiedono il motivo del suo viso sfigurato.
Realisticamente, invece, intravvedo nell’azione del soldato Sanna uno slancio di reazione contro la violenza e il sopruso e la fermezza oltre la paura che sorregge quando non resta in gioco latro che la dignità. La dignità, per esempio, che mosse 650.000 italiani, compreso il papà, a dire “No!”, nonostante tutto e contro tutti quelli che avevano loro tradito la vita.
– 15 ottobre 1940: decisione dell’invasione della Grecia.
– 25 ottobre: ignoti attaccano un posto di frontiera albanese.
– 25 ottobre: tre bombe esplodono nella legazione italiana di Santi Quaranta.
– 28 ottobre: alle tre del mattino l’ambasciatore ad Atene consegna l’ultimatum a Metaxas, che lo respinge.
– 28 ottobre: alle 5,30, i primi reparti italiani entrano in Epiro.
– 29 ottobre: entrano in azione nel settore dell’Epiro, dal mare verso l’interno, il Raggruppamento Litorale, le divisioni Siena, Ferrara, Centauro e Julia, alle quali si aggiungerà poi la Bari.
– 29 ottobre: in Macedonia occidentale, ossia nella zona di Coriza, si muovono la Parma e la Piemonte, prima ad operare, alle quali si aggiungerà la Venezia, spostata dal confine jugoslavo.
– 31 ottobre: la Siena avanza con difficoltà per la pioggia e per i fiumi in piena.
– 1° novembre: i greci, sinora astenutisi dal contatto, attaccano violentemente in Macedonia occidentale, costringendo e le nostre divisioni a ritirarsi sino al fiume Devoli.
– 4 novembre: i greci rafforzano il settore e cominciano a premere.
– 7 novembre: la divisione Julia, posta sul perno tra le due armate italiane e a rischio accerchiamento, ripiega su Coriza.
– 9 novembre: Visconti Prasca è sostituito al comando dal generale Soddu, sottosegretario alla Guerra.
– 10-12 novembre: continua l’affluenza disorganica di nuovi reparti.
– 12 novembre: aerei inglesi attaccano a Taranto la flotta italiana.
– 14 novembre: nuova offensiva greca in Macedonia occidentale.
– 17 novembre: Erseke è abbandonata e i greci minacciano il fianco dell’XI armata.
– 18 novembre: Mussolini reagisce a suo modo e dichiara: “Spezzeremo le reni alla Grecia.”
– 18 novembre: la Julia deve rilevare in prima linea la divisione Bari, travolta non senza accuse di scarso valore.
– 20 novembre: la Julia, al ponte di Perati, è investita da preponderanti forze greche.
– 21 novembre: Hitler redarguisce Mussolini in una lettera nella quale gli contesta come l’iniziativa italiana abbia avuto conseguenze psicologiche e militari molto gravi.
– 22 novembre: gli italiani abbandonano Coriza.
– 26 novembre: il maresciallo Badoglio presenta le proprie dimissioni da Capo di stato maggiore generale
– 26 novembre: al suo posto viene chiamato il generale Ugo Cavallero.
– 28 novembre: gli euzoni prendono Pogradec, un caposaldo ritenuto essenziale per la nuova linea di difesa italiana.
– 4 dicembre: Soddu è preoccupato della situazione e avanza l’ipotesi di una trattativa col nemico.
– 7 dicembre: Argirocastro viene evacuata.
– 29 dicembre: il generale Soddu viene sostituito al comando delle truppe d’Albania dal generale Cavallero.
– 5-6 gennaio 194: i greci riprendono l’attacco e prendono Klisura.
– 19-20 gennaio: incontro tra Mussolini e Hitler a Salisburgo.
– 29 gennaio: muore il generale e primo ministro greco Ioannis Metaxas
– 29 gennaio: al suo posto il re nomina Alèxandros Korizis.
– 23 febbraio: Mussolini, a Roma, assicura che le cosa cambieranno con la primavera.
– 1° marzo: truppe tedesche entrano in Bulgaria con il consenso di re Boris.
– 2 marzo: Mussolini parte per l’Albania per assistere all’offensiva italiana verso Klisura.
– 9 marzo: gli italiani attaccano in direzione di Klisura, ma senza risultati di rilievo, strage a quota 731 – Monastero.
– 16 marzo 1941: l’offensiva verso Klisura viene sospesa.
– 21 marzo: Mussolini lascia l’Albania.
– 25 marzo: la Jugoslavia aderisce al Patto Tripartito Italia-Germania-Giappone.
– 27 marzo: in Jugoslavia un colpo di stato anti-asse depone il reggente, sostituito con il giovanissimo re Pietro II, e conferisce il potere al generale filo-britannico Simovic.
– 6 aprile: inizia l’operazione “Marita”, con l’invasione tedesca della Jugoslavia e della Grecia.
– 9 aprile: le truppe tedesche entrano a Salonicco.
– 10 aprile: gli italiani si muovono, da nord, in direzione della Jugoslavia.
– 12 aprile: i greci si ritirano da Macedonia occidentale ed Epiro per evitare l’accerchiamento tedesco.
– 13 aprile: approfittando della ritirata greca, il fronte italiano si getta in avanti. I greci combattono intensamente per ritardare l’avanzata degli italiani ed infliggere loro le maggiori perdite possibili.
– 14 aprile: i soldati italiani entrano a Coriza e, in Epiro, riprendono Klisura e Monastero.
– 18 aprile: l’XI armata italiana entra in Argirocastro, mentre i tedeschi avanzano verso Gianina.
– 18 aprile: il primo ministro greco Korizis si toglie la vita.
– 19 aprile: il grosso delle truppe inglesi riesce ad imbarcarsi per Creta, protetto da alcuni reparti che poi si arrendono.
– 20 aprile: a Larissa, contro gli ordini di Papagos, il generale Tsolakoglou si arrende ai tedeschi. Nel documento di resa non sono menzionati gli italiani, ai quali i greci rifiutano di arrendersi.
– 23 aprile: viene replicata la firma della resa, questa volta anche alla presenza degli italiani.-