Appena smette di piovere, la tempesta si scatena. I greci, fino a quel momento defilati, si fanno sotto e martellano incessantemente. Il primo novembre, alle otto del mattino in Macedonia occidentale si lanciano contro il fianco sinistro italiano e una volta nella piana di Corizza, può portarsi alle spalle dello schieramento italiano avanzato in Epiro. Le tre divisioni italiane nella zona di Corizza, la Parma, la Venezia e la Piemonte sbandano e si disperdono. I greci avanzano sui costoni martellando gli italiani con i mortai e lanciando i loro reggimenti di cavalleria. Da un lato gli italiani avanzano in Epiro, mentre dall’altro, i greci dilagano in Macedonia. La Julia, al centro dei due fronti che vanno in senso opposto, gira a vuoto, non regge più e alle sue spalle si infiltrano le forze nemiche. In qualche comando si parla di “Babilonia completa!”
Che fare? Siamo sull’orlo della disfatta, scontando la mancanza di pianificazione, come, ad esempio, avere i reparti di artiglieria inoperosi sulle montagne ad aspettare i cannoni, ancora nel porto di Durazzo. Intanto si reagisce: si interrompe la smobilitazione in atto in Italia e si dà il via all’invio disordinato di uomini, armi, materiali, quadrupedi e automezzi, senza pianificazione. Si mandano gli uomini ora qui e ora là, a tamponare falle e a puntellare cedimenti (vedi il 4° bersaglieri), facendo sì che divisioni già frettolosamente ricostituite in patria e approdate in Albania senza armi pesanti e senza mezzi di trasporto (che sarebbero arrivati chissà quando), siano smembrate e in gran parte mai più ricostruite organicamente, con tanti saluti alle filiere di comando e dello spirito di corpo. Una guerra d’attacco, che doveva essere vinta operando a livello di corpi d’armata e di divisioni, diventa una disperata guerra di battaglioni e di compagnie disperse drammaticamente là ove serve fermare o ritardare il nemico, che avanza dirompente con superiorità di uomini e di cannoni. Il racconto della guerra fatto dal papà, del resto, lo testimonia in maniera emblematica: per tutto il periodo di operazioni (novembre 1940 – aprile 1941) è tutto un disperdersi di battaglioni e compagnie, chi sul camion, chi in bicicletta, chi a piedi, chi a supporto di quello, chi di quell’altro, chi si immola per bloccare l’avanzata, chi si salva come può. Di manovre organiche divisionali o, quanto meno di reggimento, poco o niente.
I Greci insistono: il 14 novembre attaccano di nuovo e affondano nel fulcro strategico di Erseke, dove il 1° reggimento bersaglieri funge da punto di giunzione fra le armate dei due settori. Ci sono malintesi nelle comunicazioni tra i comandi e si apre una voragine. Fa freddo, piove, poi nevica. Qui entra in gioco il 4° reggimento bersaglieri e, per primo, il più avanzato (perché trasportato coi camion, vi ricordate?) XXXI battaglione. I mortai martellano senza sosta le nostre posizioni; gli ospedali da campo mancano di tutto; l’aeroporto di Corizza è sotto tiro. Esposti al fuoco nemico, gli alpini scendono dagli Junker tedeschi: molti di loro, insanguinati, sono subito reimbarcati sullo stesso aereo e rispediti indietro. Al fronte gli atti di eroismo sono molteplici e, almeno per quanto riguarda il reggimento di Dante, li conteremo alla fine, i soldati e gli ufficiali cercano di tenere duro, si contrattacca alla baionetta e con le bombe SRCM, muoiono anche ufficiali superiori. Resistere? Ritirarsi? Soddu, lasciato solo o quasi, decide di ritirarsi. I greci si lanciano in avanti e affondano nel vuoto. Davanti a loro, in lunghe colonne, gli italiani, abbandonata Corizza (il papà, coi suoi compagni, tra gli ultimi) ripiegano relativamente e sorprendentemente in ordine verso una linea più sicura , di cui uno dei bastioni principali, terminale est del fronte, dovrebbe essere Pogradec, sulle rive del Lago d’Ocrida, che però è stata appena presa dai greci con una manovra tanto spregiudicata quanto coraggiosa dalle loro truppe scelte, ma soprattutto vincente dal punto di vista strategico. Si profila un disastro: se passano, i greci scendono direttamente a Tirana e buttano a mare quel che resta delle due armate.
Il 18 novembre la guerra è in pieno svolgimento, le cose vanno male e Mussolini informa i suoi ospiti ad una riunione di partito: “…Ora con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia. In due o dodici mesi poco importa. La guerra è appena cominciata. Noi abbiamo uomini e mezzi sufficienti per annientare la resistenza greca”.
Un discorso travolgente, una delle tante frasi ad effetto per la storia. Mentre tutti applaudono, mio padre, raggiunto il fronte in bicicletta, è sotto i colpi di mortaio, al freddo, affamato e vede morire i primi compagni. Eppure, come lui, migliaia di poveri soldati fanno il “loro dovere” e, mentre soffrono di tutto ciò, combattono oltre il limite, si difendono, contrattaccano, compiono azioni eroiche fino al sacrificio. Ma a Roma si apre la caccia ai colpevoli del disastro e, secondo Mussolini, non solo i generali, ma anche quei soldati sono delle “pappemolli”. Quei ragazzi stoici, coraggiosi, tenaci meriterebbero ben altro della considerazione vergognosa, sprezzante e razzista del duce (è uno di quei momenti in cui mi sovviene piazzale Loreto…) Meriterebbero invece, se non un encomio pubblico, forse per il contesto storico delle vicende e senza un’ampia disamina delle responsabilità italiane della guerra e delle sue conseguenze, almeno il riconoscimento delle sofferenze e dei sacrifici che, in condizioni del tutto improvvisate, compiono quotidianamente per tenere in piedi la baracca. Metaxas, il primo ministro greco, proprio in quei giorni, invece, scrive sul suo diario: “Chissà come soffrono i miei soldati al fronte!” Sono i giorni della presa di Corizza: è una cocente umiliazione per noi, un motivo di orgoglio per i greci, un motivo di scherno per i “sudditi” albanesi. La Grecia è imbandierata. Metaxas parla alla radio e ironizza sulla “assoluta certezza” di Mussolini. La notizia fa il giro del mondo e inglesi e americani ci ridicolizzano: “L’ultimo esercito del mondo ha sconfitto il penultimo esercito del mondo!” L’iniziativa, però, è ancora dei greci, che attaccano di nuovo, anche se i bollettini minimizzano. Mussolini se la prende con i suoi gerarchi e li spedisce al fronte a fare passerella e figuracce. (Leggasi a tale proposito, nel capitolo 10, il brano “Gerarchi al fronte”).
Lo scontro con i greci e il ripiegamento su Corizza.
La marcia del XXVI e del XIXX battaglione prosegue come già detto in bicicletta. Lasciata libera si raggiunge la piana di Perrenjes, ove i due battaglioni si separeranno, il XXVI prosegue fino a Pogradec sempre in bicicletta e poi in autocarro sino a Coriza. Successivamente, nuovamente in bicicletta si porterà prima verso Bilisti e poi verso Qafa el Quarrit, ove lascerà le biciclette per continuare a piedi verso la linea del fronte.
Il XXIX battaglione invece lascia subito le biciclette nei capannoni di Perrenjes, poiché i reparti vengono ora caricati anch’essi su autocarri, per raggiungere pure loro più rapidamente la linea di combattimento. Sono gli stessi autocarri che hanno trasportato due giorni prima il XXXI battaglione e che ora continuano a fare la spola tra il fronte e i reparti in marcia per portare in linea più uomini possibile.
i greci intanto esercitano la loro pressione su tutto il nostro settore di fronte, ma le nostre truppe riescono per ora ad arginare l’offensiva, in attesa di ulteriori rinforzi.
Da informazioni ricevute si apprende che il nemico continua a far affluire truppe verso il proprio confine. I greci possono effettuare questi movimenti molto agevolmente, operandoin territorio nazionale, con strade migliori e con l’aiuto e la collaborazione della popolazione della zona.
Dalla nostra parte le cose vanno molto diversamente. Date le condizioni delle strade i rinforzi arrivano molto lentamente. In più, sul nostro settore, la via di accesso alla piana di Erseke è una sola e quindi ogni nostro rifornimento deve transitare solo su di un’unica rotabile, con le difficoltà che si possono facilmente immaginare.
Qui sul fronte occorrono uomini e uomini e purtroppo questi devono arrivare dall’Italia, attraversando un tratto di mare, eccetera. Occorre più di tempo per tutto questo.
Se i greci eserciteranno la loro pressione in misura contenibile, con le attuali nostre forze possiamo attendere con una certa fiducia; in caso contrario, la faccenda diventa molto seria. Intanto gli automezzi del reggimento il giorno 15 novembre sono stati imbarcati a Bari e oggi, giunte a Durazzo, proseguiranno subito per cercare di raggiungere i reparti in linea.
Tragiche giornate
Il 17 novembre i greci iniziano il loro attacco con ingenti forze e forte preparazione di artiglieria. Il tentativo di sfondamento su questo fianco sinistro dimostra chiaramente l’intenzione del nemico di tagliare la strada per il Lago d’Ocrida e aggirare alle spalle gran parte delle nostre truppe che operano in quel settore di fronte.
Bisogna resistere. I bersaglieri 4° non vengono meno alle loro tradizioni di ardimento, di coraggio e di eroismo. Morti e feriti cominciano a lasciare il loro sangue in terra d’Albania, iniziando il lungo e glorioso elenco dei valorosi che, a prezzo della loro vita, difendono e tengono alto il prestigio del soldato italiano. Non facciamo nomi perché presto purtroppo saranno tanti. Troppi, e non desideriamo dimenticare nessuno. Ma i bersaglieri del 4° sanno chi sono i loro compagni d’armi caduti, feriti e dispersi in Albania ed il loro ricordo sarà d’esempio e di incitamento per i giorni che verranno.
L’autodrappello, intanto, giunge nel tardo pomeriggio a Coriza. La cittadina è in fermento perché l’attacco dei greci non fa presagire nulla di buono.
Le artiglierie nemiche hanno già centrato la strada che porta verso il fronte. L’autodrappello attraversa così la piana a velocità sostenuta e con automezzi notevolmente distanziati l’uno dall’altro.
A sera il comando di reggimento era raggiunto, ma, effettuati i rifornimenti di munizioni, viene dato l’ordine per gli automezzi di portarsi subito indietro in posizione meno esposta, tanto più che ora essi sarebbero solo d’impaccio per qualsiasi movimento dei reparti.
Nei due giorni che seguono i greci attaccano senza soste con forti masse di uomini; la loro forza numerica è valutabile assai superiore alla nostra ed è continuamente alimentata da truppe fresche. Inoltre attaccano da posizioni più elevate, con efficace appoggio di artiglieria e di mortai, quei morti terribili mortai da 81 che saranno il nostro incubo in tutta questa guerra.
Bisogna tuttavia resistere il più possibile. I bersaglieri continuano a contrattaccare il nemico, mentre il numero dei morti e dei feriti aumenta. Particolarmente provato rimane il XXXI battaglione di cui diremo più avanti.
I greci insistono nel loro sforzo di sfondamento verso le montagne che circondano Coriza per il previsto aggiramento delle nostre posizioni. Ma la resistenza delle nostre truppe non può continuare senza l’arrivo di ulteriori rinforzi.
Le autombulanze non fanno altro da due giorni che portare verso le retrovie feriti e feriti punto i morti hanno sepoltura sul posto.
Intanto il comando d’armata a Coriza ha ritenuto opportuno predisporre un ripiegamento dei vari settori su posizioni meno esposte.
Il 20 novembre è una giornata delle più tragiche. La battaglia infuria da diversi giorni si inasprisce ancor di più, mentre quota 1914 e quota 1461 sono un inferno.
I bersaglieri contrattaccano con furore, ma la superiorità nemica è soverchiante.
I greci frattanto, intensificando ancor di più i loro attacchi, riescono, nonostante il valore delle nostre truppe, ad aprirsi lentamente un varco, sempre con l’obiettivo di raggiungere Coriza. L’ordine per i bersaglieri del 4° è quello di ripiegare e portarsi sulle alture di Drenova, davanti a Coriza, per concorrere a tamponare la falla e fermare il nemico. A sera i reparti, pur duramente provati con grandi vuoti nelle file causati dalle forti perdite subite, iniziano il movimento di ripiegamento.
La notte coprirà col suo velo questa manovra, che viene effettuata con ogni mezzo disponibile, pur di raggiungere più celermente l’obiettivo stabilito.
Prima di continuare ad esposizione dei fatti bellici della terza decade del novembre 1940, culminati con lo sgombero di Corizza e con il definitivo sbarramento del fronte sulle alture di Pogradec, vediamo di seguire le vicende del XXXI battaglione dal momento in cui si staccò dal reggimento per raggiungere, autocarrato, più rapidamente la linea del fronte. Queste vicende furono riassunte personalmente dal colonnello Scognamiglio in una “Relazione sull’azione svolta dal XXXI battaglione nel periodo 12- 20 novembre e nella giornata del 21 novembre 1940”, relazione che egli dettò qualche giorno più tardi al sottotenente De Cecco, allora ufficiale di collegamento tra il comando di reggimento ed il XXXI battaglione, affinché fosse successivamente inoltrata ai comandi superiori.
Talvolta le testimonianze dei soldati sul fronte greco-albanese vanno oltre i diari di Dante, Scalone e Quaglino. Vanno oltre il narrabile. Ci danno un’idea di quanto al fronte si soffra moralmente, tra la paura della morte, la lontananza dagli affetti, l’abbrutimento del vivere quotidiano, e fisicamente, con il gelo, il freddo, la fame, l’immobilità dei giorni e delle notti passati nelle buche, sotto la neve e le cannonate. Ma, se possibile, c’è anche di peggio. Se si pensa che montagne d’Albania nevica quasi ogni giorno, che il vento gelido getta in faccia ai nostri soldati ghiaccio e brina, che le gambe e i piedi diventano insensibili e gelano irreversibilmente. Negli ospedali si amputa e si producono migliaia di invalidi nello spirito e nel corpo.
Si legge sui libri e sui diari dei nostri soldati al fronte che ricorrono a ogni mezzo possibile per evitare le temuta e subdola “morte bianca”, quella provocata dal gelo, di come si avvolgano con pelli di ogni animale possibile, dei guanti di lanital che si inzuppano d’acqua, gelano e immobilizzino le mani fino al congelamento. Quegli uomini in grigioverde si scaldano il capo con le carni ancora calde dei muli morenti e poi se le mangiano, crude. Quel grigioverde che si irrigidisce (Dante, sulle Alpi, ricorda ad un certo punto che “sembravamo di lamiera”), non riparando dal freddo e non conservando il calore corporeo. Le barbe stanno incolte per mesi (ce ne parla anche qui Dante, che nella sua vita che ho visto si radeva puntualmente tutti i giorni, fino all’ossessione e fino all’ultimo giorno). Le armi si bloccano per il freddo. La neve copre valli e sentieri sconosciuti, rendendo difficile trovare sulle carte i luoghi assegnati: alcuni reparti si perdono e finiscono diritti in bocca al nemico.
Le convinzioni cominciano a sgretolarsi. Si pensa sempre alla vittoria finale, come Dante, del resto, ma non si possono nascondere la confusione, l’approssimazione, l’incoscienza con cui è stata preparata e condotta l’invasione. Si parla di arrivare ad Atene in due settimane, ma il tempo passa, e le settimane diventano mesi. Ci si comincia a chiedere il perché e il per chi. Intanto gli albanesi restano increduli di fronte a tanto disastro e cominciano a disprezzare quell’esercito che credevano di una grande potenza e che invece viene messo in fuga e quasi umiliato dai soldati di una piccola nazione, perdi più loro storica nemica. E ciò fa male al morale dei nostri soldati, che già devono sopportare il freddo, la fame, la sete, i mortai, i pidocchi e la sporcizia. Ma tengono duro. Altro che soldati italiani imbelli!
Fino a qui un disastro, da qui in avanti andrà meglio, già prima dell’aiuto della Germania che, comunque, sarà facilitata nell’affrontare un nemico fiaccato da cinque mesi di guerra e posizionato da tutt’altra parte, sul fronte albanese, per fronteggiare gli italiani: ciò va sicuramente tenuto in adeguata cononsiderazione per un’analisi complessiva degli avvenimenti e per evitare banali semplificazioni.
Il generale Pricolo, mandato da Mussolini a informarsi, chiede a Visconti Prasca cosa ne sia della Julia. Risposta: “La Julia? Non ho notizie, ma a quest’ora avrà senz’altro raggiunto il passo di Metzovo”. Ma non è lui il comandante delle truppe italiane? Se, a cinque giorni dall’inizio dell’invasione, non lo sa lui dove si trovi la Julia, chi altri deve saperlo? Ma c’è anche di più. Richiesto da Roma di fare il punto della situazione, Visconti Prasca risponde: “Situazione Epiro non inquietante”. Non inquietante? Arrivati a Corizza, sfiniti, con le barbe lunghe, le uniformi a brandelli, ma stringendo saldamente il fucile, gli alpini della Julia, abbandonate le posizioni e ritiratisi dopo essersi aperto un varco fra le forze greche alle loro spalle, chiedono e supplicano, qualcosa da mangiare. Cadono le prime teste e il 9 novembre, a Visconti Prasca viene tolto il comando.
21 novembre
22-24 novembre
27 novembre
1 – 8 dicembre
9 dicembre
23 dicembre
25 dicembre
26 dicembre
27 dicembre
Con l’avvento al comando di Cavallero, si mette ordine nel flusso dei rinforzi in Albania, cercando di mantenere integre le divisioni, si cerca di acquisire la superiorità numerica e di erigere un muro difensivo su linee adatte alla difesa. Ma il tempo è poco: Berlino sbuffa, critica e insiste per dare una mano, Roma spinge a sbrigarsi, per poter riportare qualche successo e risollevare il prestigio perduto, al limite, per alcuni aspetti, del ridicolo.
Si valutano due ipotesi per una nuova offensiva: nella zona di Corizza, a nord, oppure a sud in direzione del nodo di Klisura. Il primo caso parrebbe il più logico, sia in quanto in quella zona i greci sono alla fine del loro slancio offensivo, fiaccati dalla resistenza italiana (4° reggimento e Dante compresi) e non ancora pronti a volgersi in atteggiamento difensivo, sia perché avrebbe consentito un congiungimento offensivo con i tedeschi in occasione del loro imminente intervento (come poi avverrà, a seguito dei fatti di Jugoslavia, con il 4° reggimento che li incontra sul Lago d’Ocrida). Invece si sceglie il secondo, ridimensionando l’offensiva a sterile azione locale, fine a sé stessa, senza valenza strategica e andando a sbattere proprio là dove i greci sono più forti e sistemati anche a difesa.
In quell’offensiva di primavera, lasciamo sul campo migliaia di uomini. Per niente. Mussolini, che era andato lì per assistere al trionfo, se ne torna a Roma con le pive nel sacco. Alla fine, quei diecimila e più morti gli consentiranno di celebrare quell’inutile battaglia come una vittoria e come l’avverarsi della famosa profezia sui reni ellenici.
Hitler non vuole umiliare il Mussolini. Gli scrive: stiamo per intervenire e possiamo vincere, ma a una condizione: che le truppe italiane tengano duro in Albania. Il duce garantisce. E non si accorge o finge di non accorgersi che il suo alleato lo sta prendendo in giro. Il 6 aprile le divisioni corazzate del feldmaresciallo Wilhelm List attraversano la frontiera bulgara e entrano in Grecia.
Da questo punto gli eventi riprendono con l’inizio del terzo quaderno dei Diari.
Il giorno 2 dicembre 1940 i greci fecero la prima apparizione, prendendo le misure alle nostre postazioni. Ci fu una lunga sparatoria da ambo le parti, poi, senza insistere ulteriormente, si ritirarono e si appostarono anche loro in una collina di fronte a noi.
[…]
L’indomani mattina giorno 3 dicembre cannoni e mortai greci presero di mira le nostre posizioni, un fuoco di sbarramento che lasciava presagire un attacco imminente. Il 4 dicembre, verso le 10, la fanteria greca venne all’assalto, ma toccarono duro, le beccarono maledettamente e non ci provarono più. Anche nelle nostre file ci furono morti e feriti.
[…]
I mesi di dicembre e gennaio furono terribili, la neve venne abbondante, fino a superare il metro. Si montava di guardia 8 ore consecutive, che sembravano non passare mai. Nei camminamenti facevamo lunghe corse per tenere il sangue in circolazione, specialmente ai piedi, che rischiavano il congelamento.
[…]
Le condizioni erano davvero pessime: il ghiaccio si formava sul telo della tenda e sugli scarponi; l’acqua scorreva sotto il giaciglio e, quando la notte nevicava e ricopriva interamente la tenda, la mattina si faceva fatica a uscire fuori. Un complesso di cose che fecero di noi delle figure inutili: si mangiava male, si dormiva malissimo, sporchi, spesso infestati dai pidocchi. In quelle condizioni, campare o morire, per noi, non aveva più alcuna importanza. La nostra squadra era composta da 12 elementi, ma ora, nei primi giorni di gennaio, eravamo rimasti solo in 5, piuttosto malandati. La stessa cosa accadeva dappertutto nel nostro battaglione.
Il 15 gennaio 1941 arrivarono circa 400 bersaglieri, che, sufficienti solo a rimpiazzare le perdite subite tra dicembre e le prime due settimane del mese di gennaio, furono distribuiti in tutti i reparti del battaglione, virgola in rapporto all’ammanco di uomini nelle varie compagnie. I nuovi arrivati, vedendoci in quelle condizioni, ci guardavano a bocca aperta. Erano quasi tutti piemontesi, tutta gente che a casa aveva lasciato moglie e figli e che, vedendo noi in quelle condizioni e pensando che in poco tempo anche loro si sarebbero ridotti allo stesso modo, provavano un forte scoramento. Tre nuovi arrivati in forza alla nostra compagnia morirono lo stesso giorno, dentro una tenda colpita da una granata di mortaio. Noi, di fronte a loro, sembravamo appartenere ad un’altra razza: ormai non notavamo più le pallottole che fischiavano e le bombe che scoppiavano non ci facevano né caldo né freddo. Loro invece, alla prima esperienza di guerra, ad ogni piccolo pericolo erano sopraffatti dal terrore.
[…]
Il 28 gennaio la nostra compagnia, la settima, fu tolta dalla prima linea per passare di rincalzo.
[…]
Nelle giornate soleggiate del mese di marzo avevamo la possibilità di toglierci di dosso i panni per raschiare con la lama del coltello il sudiciume di pidocchi, ma di lavarli o di lavarci noi stessi non c’era alcuna possibilità. Era l’emblema della vergogna dello stato fascista, che si proponeva di vincere la guerra con un esercito ridotto a una massa di straccioni, dalla testa ai piedi. Io mi adattavo a rattoppare con ago e filo, chi non ne era capace rimaneva con la divisa a penzoloni.
[…]
In questo periodo tutte le mattine allo spuntare del sole veniva a farci visita a un aereo nemico, spuntava da dietro il monte e si lanciava sella nostra linea a mitragliare e bombardare. Era impossibile colpirlo con i fucili o con le mitragliatrici. Una mattina, era il 3 marzo, arrivò come sempre a bassa quota e mitragliò le nostre postazioni, poi virò per continuare a mitragliare ancora, ma questa volta, da sopra un ponticello, una mitraglia antiaerea che era stata fatta arrivare apposta, poté sparargli. Sparò solo tre colpi, al terzo tiro lo centrò in pieno e l’aereo andò subito in fiamme.
[…]
Negli ultimi giorni del mese di febbraio mi ero ammalato e per 5 giorni consecutivi mi recai dal medico di campo con la febbre a 38. Alla fine firmò il foglio di ricovero per l’ospedale di Elbasan.
[…]
Dopo 8 giorni fui dimesso con una licenza di 5 giorni che passai al secondo reggimento di Marcia sempre a Elbasan.
[…]
Il giorno 19 di marzo rientrai un’altra volta al fronte sul Monte Kalase, dove trovai i miei compagni là dove li avevo lasciati.
Mentre i nostri ragazzi sono mandati a morire, a Roma i decisori di guerra si sacannano nel rimpallo di responsabilità per il disastro che si profila. Quaglino accenna al problema con fatalismo, ma Mario Cervi descrive per intero la situazione nel suo libro, del quale sono riprodotti qui sotto ampi stralci, utili per inquadrare compiutamente gli eventi narrati nei memoriali che stiamo trascrivendo.
“STORIA DELLA GUERRA DI GRECIA” di Mario Cervi.
Dalle prefazioni alle edizioni 1986 e 2001
Mi ero inserito da accusatore nel racconto perché, mentre buttavo giù a macchina le righe del dattiloscritto, avevo ancora vive nella memoria le immagini del giorno in cui, subito dopo l’8 settembre del 1943, una pattuglia tedesca venne a prelevare le armi del mio plotone – il comando d’armata aveva ordinato ad Atene di consegnarle – e il giorno successivo un’altra pattuglia venne a prenderci prigionieri. Quelle immagini si sovrapponevano alle altre della guerra vera e propria. La frustata bruciava ancora e veniva da lontano, dalla decisione appunto di spezzare le reni alla Grecia.
Dalle pagine da 190 a 210
Non eravamo attrezzati per misure di questo genere. Nella confusione dell’arretramento, c’era altro, più urgente, cui provvedere. Avevamo preparato, malissimo, un’avanzata. Non eravamo in grado di proteggere la ritirata con altro mezzo che non fosse il fuoco e il sacrificio delle truppe. A togliere in qualche modo Papagos dalle incertezze in cui si dibatteva provvide il generale Tsolakoglou, al cui corpo d’armata era affidato l’estremo settore della Macedonia occidentale, adiacente alla frontiera jugoslava. Egli propose che, senza dar tregua ai nostri reparti, si puntasse con un raggruppamento scelto di quattro battaglioni di fanteria appoggiati da un’artiglieria molto consistente, verso Pogradec. Questo località era un bastione prezioso per la difesa. La sua perdita avrebbe reso ancor più accentuata la minaccia di un aggiramento della nona armata sulla sinistra, la conquista di una parte della costa del lago di Ocrida avrebbe offerto ai greci la possibilità di tentare sbarchi alle spalle del fronte.
Nevicava fitto ormai sui Monti di Albania, i battaglioni italiani della nona armata erano spesso isolati e fu necessario istituire tre centri di avio rifornimenti per assicurare almeno il cibo alle truppe impegnate in una lotta senza quartiere. La rottura del contatto tra le divisioni della nona armata e i greci durò tre giorni soltanto, dal 21 al 24. Il 24 novembre il gruppo di battaglioni che puntava su Pogradec saggiò la nostra linea e il giorno successivo serrarono sotto altri reparti della divisione. L’azione risolutiva fu condotta da montanari greci che infilarono la stretta scoscesa vallata di un piccolo corso d’acqua, lo Tseravas, scorrente tra rocce che strapiombano. Per quell’itinerario impervio i greci riuscirono ad eseguire un’infiltrazione che disorientò i difensori, da pochissimo sistemati su posizioni sconosciute. La battaglia fu dura, i reggimenti della Venezia si batterono, ma il 28 novembre anche Pogradec era stata perduta. La costruzione del nuovo fronte di Soddu era vacillante per la perdita di uno dei suoi pilastri essenziali.
Mussolini smaniava. Al capo del SIM, generale Cesare Amè, chiamato a Palazzo Venezia il 15 novembre, aveva gridato: “Voglio la verità, perché farò scoppiare diverse teste davanti al plotone di esecuzione”. Nessuno fu fucilato. Veniva però liquidato Badoglio, il temporeggiatore: avversario della campagna di Grecia, ma con improvvisi giudizi entusiastici, obiettore di coscienza contro i fantastici piani di Visconti Prasca, ma poi rassegnato, perché credeva, o fingeva di credere, che i politici avrebbero sistemato tutto. Il 23 novembre, il ras di Cremona, Roberto Farinacci, fascista deviazionista, fanatico filotedesco, ambizioso e volgare, aveva esplicitamente attaccato su Regime Fascista, il suo giornale personale, il maresciallo. “Mussolini” tuonò il Farinacci, “ha parlato chiaro. Mussolini ha proclamato che la moderna Cartagine sarà sconfitta e che la Grecia finirà con le reni rotte. Noi siamo certi che tutto questo si realizzerà, anche se qualche imprevidenza e intempestività del comando dello Stato Maggiore Generale ha permesso a Churchill di avere uno sciocco diversivo. Ma tutti i mali non vengono per nuocere. Maggiore sarà la reazione, più tremenda sarà la disfatta del nemico.
L’attacco era certamente ispirato, se non da Mussolini e Ciano in persona, almeno da uomini che ruotavano nell’orbita di palazzo Venezia e Palazzo Chigi: ed era un attacco che non dispiaceva ai tedeschi. Badoglio domandò udienza a Mussolini e pretese la smentita; ne indicò anche il contenuto, di tono così umiliante per Farinacci che, secondo Ciano, il gerarca cremonese piuttosto che subirla avrebbe messo la dinamite sotto le rotative del giornale.
[…]
Badoglio non aveva torto nel respingere un’accusa che, salvando Visconti Prasca, Jacomoni e Ciano, faceva ricadere su di lui tutte le responsabilità della sconfitta. Chiese quattro giorni di licenza, e si recò nella sua casa di campagna nel Monferrato a riflettere e a cacciare. Ma intanto inviava una lettera di dimissioni. Contava probabilmente sull’intervento del re. Vittorio Emanuele terzo preferì invece, come altre volte era accaduto, non vedere e non sentire.
Il 29 novembre Mussolini informava il re per lettera delle dimissioni di Badoglio. Il re, pronto, acquiesceva.
[…]
Più tardi, dopo aver ricevuto il maresciallo che era tornato a Roma, Vittorio Emanuele rincarava la dose: “Badoglio mi ha fatto un’impressione disastrosa, fisicamente e distrutto intellettualmente intorpidito. Domattina, ha detto, si recherà dal Duce per ritirare le dimissioni”. Si era al 3 dicembre e Badoglio faceva macchina indietro, ma il re lo aveva abbandonato, senza pentimenti e resipiscenze di sorta e in queste dimissioni può essere cercata la radice del ruolo che Badoglio assunse il 25 luglio 1943 appunto non solo Vittorio Emanuele non si impegnava nella difesa del maresciallo, ma faceva sapere a Mussolini, tramite Acquarone, che lo considerava un rottame.
[…]
Il suo ripescaggio del 1943 lo designò non a nuove vittorie, ma alla liquidazione tragica di una situazione fallimentare. I nemici di Cavallero, e sono stati moltissimi, lo hanno definito “il generale affarista”, per i ripetuti passaggi da incarichi militari a incarichi e interessi industriali o para politici. La sua gestione dell’Ansaldo era stata seguita da un’inchiesta. Laureato in matematica pura, traduttore dal tedesco all’inglese, primo alla scuola di guerra, generale a 38 anni, una carriera tutta in alti comandi. Un uomo che si muoveva molto bene negli ambienti non militari, era suocero di Jacomoni, aveva per insegna l’ottimismo. Quel che ci voleva in quel momento per Mussolini, assediato da generali e ministri sconfortanti e pressanti e impegnato a riassestare i rapporti tra l’esercito e il partito, divenuti burrascosi dopo l’episodio Badoglio. Inoltre, e non guastava, Cavallero e Badoglio, monferrini entrambi, si detestavano da decenni.
Il pomeriggio del 3 dicembre, Cavallero era stato chiamato a palazzo Venezia. Nel Consiglio dei ministri del mattino, il duce aveva sparato a palle infuocate contro Badoglio, il cui esonero, ancora non ufficiale, era già una realtà. Secondo il diario di Cavallero, Mussolini gli avrebbe detto nel colloquio: “Desidero darle un incarico. La crisi di Badoglio è irrimediabile lei sarebbe successore”. L’unica cosa strana in tutto questo e se Cavallero ha riferito esattamente l’uso del “lei”. Con modestia Cavallero ha aggiunto che Mussolini non credeva ai suoi orecchi, sentendo come il generale, benché lontano fino alla vigilia dalla condotta di quella campagna, fosse ben informato sulla situazione albanese: “Ma quello conosce l’Albania come il suo domicilio!” In famiglia, secondo il figlio Carlo, Cavallero aveva commentato: “Siamo di nuovo a Caporetto e come allora devo rimediare agli errori di Badoglio!”
Il 4 dicembre la crisi del fronte era precipitata. Sul fronte dell’undicesima armata la pressione nemica era violenta e Geloso aveva proposto a Soddu l’immediato ripiegamento sulla linea da lui indicata in precedenza, a nord di Santi Quaranta e di Argirocastro, ma Soddu non aveva accettato questa soluzione estrema. Si susseguirono così indietreggiamenti graduali, secondo che le infiltrazioni nemiche assumessero un carattere particolarmente insidioso, nell’uno o nell’altro settore dello schieramento. Il 1° dicembre la Julia era attaccata sui fianchi e sulla sua destra si era aperta una falla che la divideva dal 41° fanteria della Modena, mandata disordinatamente in linea. Il 2 dicembre la situazione diventava seria nel settore di Permet, che apriva l’accesso alla stretta di Klisura.
Purtroppo, non c’era ormai alcun tratto del fronte che fosse, come aveva prescritto Badoglio a Visconti Prasca, solidamente ancorato e che servisse da perno per la manovra. Tutto lo schieramento è instabile, i colpi e le perdite territoriali si susseguivano, ora sull’estrema sinistra delle nostre truppe, ora nel centro e questa volta in un punto estremamente delicato. I greci avevano veramente rotto e Soddu, che aveva carattere mutevole e morale poco saldo, era impallidito, quando, dopo le prime notizie sulla breccia aperta dei greci, il suo capo di Stato maggiore, colonnello Salvatore Bartiromo, gli aveva detto con singolare intempestività: “Credo che vostri eccellenza legherà il suo nome alla più grave disfatta della nostra storia!” Era quel che ci voleva per piombare nel panico l’incerto Soddu.
Il 4 dicembre fu perciò una giornata densa di drammaticità. In un colloquio telefonico con Roatta, Ubaldo Soddu descriveva la critica situazione nella quale si svolgono le operazioni, la precaria consistenza fisica numerica e il morale delle truppe, nonché il deficiente stato dei servizi, concludendo che, sia la situazione creata, sia il ritmo di affluenza dei rinforzi, non lasciavano prevedere la possibilità nonché di una ripresa, ma neanche di un equilibrio. Soddu prospettava quello stesso giorno a Guzzoni, in un’altra telefonata, l’opportunità di addivenire a una soluzione politica del conflitto. A quella espressione, Mussolini rispose con l’ordine di contenere il terreno fino all’estremo possibile e si scatenò un cataclisma. Della richiesta di Soddu discutevano animatamente i ministri riuniti dall’anticamera del duce, la mattina del 4 dicembre. Mussolini si sfogava con tutti. Ciano diceva che non c’era più niente da fare e che, per quanto grottesco e assurdo, era così e bisognava chiedere la tregua tramite Hitler.
A Pricolo, Mussolini confidava costernato: “Avete visto il telegramma di Soddu e la proposta di domanda di un vero e proprio armistizio. Piuttosto che chiedere l’armistizio della Grecia, è preferibile partire tutti per l’Albania e farci uccidere sul posto”. Si è poi disquisito se, con quella espressione di sgomento, Soddu avesse voluto veramente suggerire un armistizio o più semplicemente richiedere un intervento tedesco: se, cioè, le parole scritte non avessero travisato il suo pensiero. A me non pare che tra le due ipotesi o interpretazioni ci sia quella radicale differenza che altri vi ravvisa. Nell’uno come nell’altro caso, Mussolini, Ciano e Jacomoni avrebbero perso malamente la loro guerra e sarebbero stati costretti o a finirla da soli con una sostanziale sconfitta o a finirla grazie ai tedeschi e con la vittoria tedesca. Ne saremmo comunque usciti, e purtroppo ne uscimmo, duramente umiliati.
Bisogna riconoscere che Cavallero raccoglieva un’eredità fallimentare. Ciano ha dato di lui un giudizio acuto. L’uomo è molto discusso, i giudizi sono disparati, ma nessuno però dice che la morte lo ha riscattato: il suicidio, in giornate amare per l’Italia, quando pochissimi altri dimostrarono risolutezza, ha dato grande dignità alla sua figura morale. È stato, tra i nostri generali, uno dei non molti che in qualche modo e per qualsiasi ragione abbiano compiuto in quei momenti tragici un gesto fiero. Su di lui correvano aneddoti che ne mettevano in dubbio la lealtà, perfino la correttezza.
Il reggimento è attestato per una guerra di posizione non congeniale per la specialità, ma si adatta ad un’attività tipica degli alpini, pur non disponendo dei loro scarponi, ma degli stivaletti da bicicletta.
A Librashd c’è l’ufficio amministrazione, l’equipaggiamento e le biciclette (al momento inutilizzabili).
A Lin i servizi della compagnia comando reggimentale, l’autodrappello e i motomezzi della compagnia motociclisti e dei battaglioni.
A Memlishta è dislocato XXVI btg, di giorno nascosto in qualche casolare o nelle buche scavate di notte.
Ai piedi del Kalase, defilati presso il tristemente famoso ponticello di bersaglieri, di cui parleremo più avanti, c’è parte della compagnia comando reggimentale e la compagnia motociclisti.
Sul Kalase, in prima linea, fronteggiano i greci i bersaglieri del XXIX e del XXXI, anche se in realtà si tratta dei resti di questi due battaglioni, perché le perdite sono state elevate, con altissimo contributo di sangue.
Le buche dei bersaglieri si riempiono di neve, di fango e di pidocchi, l’acqua da bere o è neve sciolta o è sporca di terra.
Giunge anche una circolare del comando di Tirana, a richiedere di segnalare eventuali buoni elementi per la formazione di un’orchestrina per la prefata sede del comando.
Ha più successo la circolare che dispone la creazione di reparti di arditi: nonostante gli scarsi vantaggi promessi, si formano rapidamente dei nuclei di ragazzi straordinariamente in gamba che, al comando di alcuni ufficiali, come il tenente Rocca, saranno protagonisti di numerosi e purtroppo non sempre felici, episodi di valore.
Su questa linea difensiva si ferma l’offensiva dei greci, che i soldati vivono come premessa di vittoria.
Di notte c’è soltanto qualche breve scambio di colpi di arma da fuoco e di bombe a mano di pattuglie in avanscoperta a Pogradec, che rientrano all’alba stanche e mezzo congelate fra il fango e la neve e sovente incomplete.
Quasi ogni mattina viene svolazzare sulle nostre linee uno strano uccellaccio: è un ricognitore greco di vecchio modello. Pur rendendo omaggio l’ardimento del pilota nemico virgola che si abbassa a spazzolare le nostre linee a bassissima quota, incurante delle raffiche delle mitragliatrici Breda calibro 8 in funzione antiaerea, una per battaglione, i bersaglieri lo maledicono cordialmente. Ma una mattina c’è una sorpresa: una sezione di mitragliere da 20 mm entra in azione e lo spericolato volatile viene centrato in pieno alla prima raffica, precipitando presso Memlishta. Grande entusiasmo tra gli occupanti del Kalase e anche tra i bersaglieri del XXVI btg, che escono dai loro rifugi. Purtroppo una precisa salva di artiglieria greca fa rabbiosamente vendetta su di loro della perdita del valoroso vecchio ricognitore.
I prospetti e gli schizzi riprodotti sono tratti da “L’ESERCITO ITALIANO NELLA CAMPAGNA DI GRECIA” (v. fonti in calce alla pagina).
Dal prospetto riportato sopra si nota la composizione binaria dei reparti (con l’eccezione dei carri nel XXV c. d’a.), a rappresentare la debolezza strutturale dell’armata italiana, specie se impostata all’attacco. L’unico dato accrescitivo che ne scaturisce è il numero di comandanti…
Si noti anche che le intendenze di armata risultano non ancora costituite: di tutta la montagna di informazioni e considerazioni prodotte sulla disgraziata impostazione della campagna di Grecia, questa piccola annotazione ne è l’emblema. Se pensiamo che dette intendenze esprimono il comando logistico, devono cioè coordinare l’organizzazione e il funzionamento dei servizi e soddisfare le esigenze delle forze operanti nel settore, capiamo meglio sia i disastri cui siamo andati incontro, sia le situazioni di drammatica carenza descritte in certi momenti dal papà.