Si parva licet componere magnis
C’era, in verità, un posteggio per le biciclette, all’interno dell’Istituto Tecnico Industriale Feltrinelli, del tipo a sospensione e coperto con una tettoia metallica, ma verso l’ora d’inizio delle lezioni mattutine, le otto, risultava sempre pieno; così i ritardatari adagiavano le loro bici sul muretto esterno del plesso scolastico, vicino all’ingresso, magari legandole (ma non era la regola, del resto non risultavano notizie di furti, neanche all’esterno) e frettolosamente entravano in classe.
Fraccaroli possedeva una bicicletta per la quale era costantemente preso in giro: risaliva palesemente all’anteguerra, freni a bacchetta, borsetta porta attrezzi alla sella, portapacchi, ma soprattutto era molto consunta in tutte le sue parti, soprattutto il telaio, che appariva di un colore indefinito che richiamava, talora a sprazzi, talora diffusamente a seconda della luce e della prospettiva, un probabile blu d’origine, vieppiù sostituito da un debordante colore brunito, dovuto al progressivo arrugginimento. I tubi, però, apparivano belli lucidi, a dispetto dell’incerto tono del fondo e quale segno di una conservazione e di una cura molto partecipata, nonostante o forse proprio per la vetustà del mezzo. Posteggiata vicino alle altre biciclette, tutte nuove o quasi, di tipo sportivo, dai colori metallizzati e sgargianti dei migliori marchi milanesi di allora, come Gloria, Rossignoli, Afra o dall’inconfondibile celeste della Bianchi (tutti nati nello storico distretto di viale Abruzzi), essa dava evidentemente subito all’occhio, apparendo palesemente fuori posto, a tal punto che finiva con il costituire stimolo costante ed oggetto, insieme al suo padrone, dei nostri frizzi quotidiani, sempre peraltro nei limiti di una bonaria decenza, dovuta al rispetto che implicitamente riconoscevamo al mezzo per l’età e per i supposti trascorsi bellici. Il Fraccaroli lasciava che tutto gli scivolasse via, senza arrabbiarsi, ma solo mostrando talora di non voler comprendere i motivi di un tale, scherzoso accanimento verso un qualcosa per lui essenziale e cui era evidentemente affezionato.
In realtà c’era dell’altro, un aspetto doverosamente sottaciuto, ma condiviso da tutti i compagni di classe: l’evidente simbiosi con la quale la coppia mostrava di vivere. Oltre alla cura, all’attenzione e all’affetto che il Fraccaroli mostrava di riservare al suo mezzo, infatti, egli si vestiva come la sua bici, sia nella foggia che nei colori. Erano sì tempi nei quali anche a sedici anni si andava a scuola in giacca, cravatta e pantaloni con la piega e così anche il nostro Fraccaroli, solo che il suo spezzato appariva un po’ logoro, sempre quello, rinfrescato e stirato il lunedì e via via cadente, specie nella giacca con le tasche sempre piene di qualcosa. La quale giacca era del tipo vagamente scozzese, con trama a righe larghe di colore blu attenuato su sfondo granulato marrone, così che da lontano essa appariva dello stesso colore complessivo della bicicletta, mentre solo da vicino si lasciava appena decifrare. I pantaloni erano invece di panno blu, di un blu che, senza esagerare, pareva uscito dalla stessa tinta di vernice rimasta sul telaio della bicicletta: vedendolo arrivare pedalando, egli appariva un tutt’uno col suo mezzo, indivisibile. Anche gli occhiali erano perfettamente inseriti nel contesto: già allora un po’ retro, lenti spesse con una consistente montatura marrone in corno.
Questa è la premessa. Succede poi un giorno che, all’uscita di scuola di, la bici del Fraccaroli non c’è più: l’aveva lasciata fuori, non legata (era l’ultimo a dover pensare al furto della propria bici!) ed era sparita. Proprio quella, la più vecchia, la più brutta, la meno appetibile, tra le altre così belle ed appariscenti, molte delle quali anch’esse non legate. Ci si ferma a parlare, a fare supposizioni, si pensa ad un eccesso “colposo” dello scherzo, ma l’ipotesi viene scartata subito, anche perché la classe è uscita tutta assieme, di corsa, di premura (c’era appena il tempo per andare a casa, mangiare e ritornare per le lezioni pomeridiane che sarebbero iniziate alle due). Piano piano il piazzale si svuota, le bici vengono prelevate dal muretto, ma la bici non c’è proprio più, anche il tempo per un improbabile scherzo è scaduto. Rimaniamo in quattro o cinque a rincuorare per un po’ il Fraccaroli, che prenderà poi il tram a Porta Ticinese, ma il tempo stringe per tutti e si fa ritorno a casa.
Nel pomeriggio i commenti e le ipotesi abbondano, mentre il quesito è uno solo: perché proprio quella bici, quella del Fraccaroli, la più scassata, con tante altre a portata di mano? Con sarcasmo fuori luogo, qualcuno ipotizza il passaggio di un “ferrivecchi”, che avrebbe solo fatto il suo mestiere…
Passa un mesetto, l’autunno avanza e il Fraccaroli viene a scuola in tram, un mezzo che però non gli consente in tempo utile di fare ritorno a casa, pranzare e rientrare a scuola, e si ferma a mangiare alla mensa del Gentilino. Lui e la sua bici non sono più oggetto di nuovo scherno, anzi qualcuno prova rimorso per il pregresso, ed il ricordo del furto pian piano si affievolisce.
Un sabato verso sera, mentre rientro a casa e percorro il marciapiedi di via Romilli, noto, tra altre biciclette appoggiate al muro dell’osteria all’angolo con via Gardone, l’inconfondibile sagoma della bicicletta del Fraccaroli, nella sua nota ed inequivocabile livrea. Mi avvicino, la squadro bene, controllo i particolari: è lei!
Sono indeciso sul da farsi, se prenderla, portarla a casa mia e avvisare il Fraccaroli, ma ho paura di passare per un ladro e vedermi inseguito da quello che si ritiene il (legittimo ?) proprietario del mezzo, oppure se avvisare il mio compagno di classe e decidere insieme cosa fare: naturalmente prevale la seconda ipotesi e corro a casa a telefonargli. Fraccaroli non ha dubbi: devo aspettarlo lì, davanti all’osteria e curando in qualche modo (?), nel frattempo, la bici.
Tornai giù, la bici era ancora lì, infilai lo sguardo all’interno dell’osteria: era abbastanza piena, i soliti pensionati che giocavano a carte, il mazzo al centro del tavolino tra bicchieri di vino e il mezzolitro, il vocìo di media intensità tipico di un luogo così, come allora ce n’erano tanti (si chiamavano Trani) e come oggi non ce ne sono proprio più. Attraversai la strada e mi fermai sul marciapiede di fronte: dunque il profilo del ladro andava delineandosi: pensionato, non benestante, dedito al vino e al gioco… Trovai anche la risposta al quesito sorto davanti al furto: perché proprio quella vecchia bici? Ma ovvio, la risposta era davanti ai miei occhi: la bici del Fraccaroli era stata per me distinguibile, vero, ma si trovava lì, tra sue simili, tutte alquanto dimesse e della stessa foggia, come mimetizzata tra di esse. Se ne avesse rubata una rossa, moderna, giovanile, tipo sport col cambio, come faceva a metterla lì, fuori dall’osteria insieme a quella dei suoi compari? Primo, sarebbe stato come autodenunciarsi, secondo, sarebbe stata potenziale oggetto un ulteriore eventuale furto.
Mentre aspettavo, ebbi il tempo per fare anche qualche riflessione. Una riguardava il calcolo probabilistico che poteva celarsi dietro la sfortunata (per il ladro) coincidenza: possibile che un tizio, un giorno, ruba una bici a un altro in una zona di Milano e un mese dopo un conoscente del derubato, ma soprattutto della sua bicicletta, in un’altra zona di Milano, la riconosce in bella (insomma…) vista mezzo ad altre; poi, così, senza ricerche, senza fatica… Cominciai anche a pensare al ladro, che stava giocando a carte, sorseggiando il suo blando vinello, alla sua vita, al suo ritorno a casa con la sua bicicletta. Certo il furto della bici del Fraccaroli aveva fatto il suo bel rumore, figuriamoci quanto ne avrebbe fatto il suo fortunato ritrovamento, per il quale mi sarei attribuito l’evidente merito, farcito di racconti e ricostruzioni sull’accaduto: la bici del Fraccaroli, alla faccia dell’incipiente rottamabilità, ritorna a casa e agli scherzi d’una volta, se possibile arricchiti dalla vicenda che ne aveva consolidato il già ricco curriculum. Poi ancora: ma stiamo parlando di un rudere meccanico, era toccato proprio a me di ritrovargliela? Forse se ne sarebbe preso una nuova, finalmente…
Fraccaroli arrivò in fretta, la bici era ancora lì, il ladro ancora dentro. Non l’aveva legata, si poteva prendere e basta, tutto finito: la bici sarebbe tornata al suo legittimo ed affezionato padrone, colui che gliela aveva soffiata ripagato della stessa moneta e basta. Invece Fraccaroli, più che contento per il mio ritrovamento e pronto a festeggiare, era arrabbiato, ci aveva pensato bene: voleva chiamare la polizia. Per prima cosa, sorpreso, obiettai, scoppiando a ridere:
– Alla polizia per quella roba lì? Ma dai! Ti ridono dietro!
Non la prese affatto bene, capì che la mia non era la solita battuta cattivae e che, di fronte alla sua decisione, lo pensavo veramente, ma non cambiò idea. A cinque minuti di strada, dove via Benaco sbucava (e sbuca) su via Brembo, c’era il commissariato Scalo Romana e lì si affrettò ad andare, mentre io restavo a “curare” la bici, sempre appoggiata al muro, in attesa di essere ripresa dal suo possessore, che evidentemente aveva deciso di fare giornata al trani. Se fosse uscito, nulla avrei potuto, se non rilevarne i connotati e la direzione in cui si sarebbe allontanato. Per tutto il tempo in cui ero stato davanti all’osteria, ormai era passata una mezzora buona, comunque non avevo visto nessuno uscire e prendere la bici: evidentemente erano tutti avventori “stabili”, che se la giocavano fino all’ultima partita, prima dell’ora di cena, che, col buio, si stava ormai avvicinando.
Fraccaroli tornò col poliziotto, in borghese, soprabito e sigaretta tra le dita, era lui a dettare il passo, che, date le circostanze, mi parve un po’ lento, per nulla sollecitato dall’evidente fretta del Fraccaroli che lo sopravanzava a brevi tratti. Il sovrintendente stabilì il da farsi: attesa sul posto ed intervento non appena fosse uscito il malvivente, il quale, con utile tempismo, uscì quasi subito insieme ad un gruppetto di altri avventori, che subito si diradò dopo veloci convenevoli: chi si allontanò a piedi, chi si avvicinò alle biciclette. Tra questi un ometto avanti con gli anni, aspetto mite e dimesso, vestito con abiti provati dal tempo e di taglia approssimativa, si diresse inequivocabilmente verso la bici del Fraccaroli, si fermò davanti ad essa, estrasse dalla tasca della giacca, che si era abbottonato, un paio di mollette da bucato, le fissò appena sopra l’orlo dei pantaloni e afferrò le manopole. Tanto bastò e il poliziotto attraversò la strada, si avvicinò all’uomo, scambiò due parole, si fece dare la carta d’identità e si rivolse a noi, che eravamo rimasti sul marciapiedi di fronte, facendoci cenno di raggiungerlo, per poter… presentare il proprietario della bici al ladro della stessa e spiegare quindi il perché del suo intervento. L’ometto non disse quasi nulla, per quanto sorpreso dell’intervento, rispondeva alle domande del poliziotto solo allargando le braccia, come per un assenso ovvio ed inevitabile, accompagnando il tutto con un lieve, permanente sorriso, che mantenne per tutto il tempo in cui mi fu possibile osservarlo e che accentuava un poco per assentire e un poco ritraeva, mentre scuoteva il capo per negare.
Dunque quello era un ladro! Non avevo mai visto un ladro dal vero, ora l’avevo anche conosciuto di persona. Gli sentii solo dire, quando gli fu richiesto di andare al commissariato:
– Ma è vecchia, non vale niente…
Lo disse passando lo sguardo prima verso il poliziotto, poi verso Fraccaroli e poi e verso di me. Il poliziotto non si commosse e non mise la buona parola, Fraccaroli s’arrabbiò e son sicuro che in lui accrebbe la determinazione nel voler andare fino in fondo senza pietà, io ebbi in un istante più pensieri insieme: mi venne un po’da ridere per la frase detta dal ladro, senza alcun rispetto, al cospetto di Fraccaroli e della sua bici e per tutto quello che ci stava dietro, provai sincera compassione, imprecai alla sorte che mi aveva designato ritrovatore della bici rubata, provai a riprendermi pensando che però quella è la legge e va rispettata e i colpevoli devono essere puniti e che la bici avrebbe potuto essere al mia.
La bici accompagnata a mano dal Fraccaroli, andammo tutti al commissariato, ove furono sbrigate tutte le formalità e apposte le relative firme. Evitavo per quanto possibile lo sguardo di quel signore, ma quando capitava di incrociarlo per un attimo avrei voluto che il mio, di sguardo, potesse dirgli che mi dispiaceva, sì, che non avrei voluto, che mi era capitato proprio per caso di vedere la bici e di dover avvisare Fraccaroli. Vero, era un rottame, ma Fraccaroli è fatto così, guai alla sua bici! Proprio la sua doveva rubare? E mettermela lì, in bella mostra, mentre vado a casa? Pensai anche che quella non fosse stata sicuramente la sua prima bicicletta rubata e che non sarebbe stata neanche l’ultima, forse l’avrebbe rubata in un quartiere più lontano ancora e forse non così vecchia…
Saremmo stati chiamati per il processo, potevamo, io e il Fraccaroli, tornare a casa, lui finalmente con la sua bici ritrovata.
Venne il giorno del processo e per la prima volta entrai al Palazzo di Giustizia: così immenso ed imponente avrebbe quel giorno ospitato un’udienza di un processo per il furto di una vecchia bici, quella del Fraccaroli. Io ero stato determinante nella faccenda e mi sentii piccolo piccolo, in mezzo a tanto spazio e a tanta gente indaffarata a portare in giro carte e cartelle, ma soprattutto mi sentivo fuori dal tempo: neorealismo e Ladri di biciclette erano ormai di un’epoca passata.
Non ci fu bisogno di testimoniare. Infatti dopo un po’ di attesa il sovrintendente fu chiamato all’interno dell’aula, la porta rimase aperta qualche istante, il tempo di vedere il nostro ladro in piedi, davanti a un tavolo, che guardava verso di noie con lo stesso sorriso del giorno del ritrovamento della bici e, dopo un po’ ci fu detto che potevamo andare, in quanto la nostra testimonianza non era più necessaria.
Non seppi più nulla, se era detenuto per quello o per altri furti, se fosse stato poi condannato, nulla. Passai ancora decine e decine di volte davanti al trani di via Romilli, non so se mai ci fosse tornato, con fuori magari un’altra bicicletta rubata, io non lo vidi più e nemmeno tentai di cercarlo all’interno. Ancor oggi non so se, una volta incontratolo, gli avrei parlato, scusandomi in qualche modo o me ne fosse invece mancato il coraggio.
Passarono circa due anni, avevo la macchina e una domenica mattina accompagnai un amico a vedere l’abbazia di Chiaravalle, la ciribiciaccola e i suoi cinquecentocinquantacinque ciribiciaccolini. Lo riconobbi mentre mi dava indicazioni per parcheggiare: cappellino d’ordinanza, si avvicinò per riscuotere il dovuto, evidentemente autorizzato dai cistercensi, che sapevo provassero in qualche modo ad aiutare i più sfortunati con servizi e lavori collegati alla storica abbazia. I nostri sguardi s’incrociarono nel momento in cui io scendevo dall’auto e una breve sospensione dei suoi movimenti mi disse che mi aveva riconosciuto. Aveva lasciato il sorriso d’una volta, come se non ne avesse avuto più bisogno e lo aveva sostituito, mi parve, con un dignitoso contegno professionale. Prese la moneta, ci scambiammo un saluto di circostanza e mi allomtanai.
Lo rividi ancora fare il posteggiatore, passando fuori da Chiaravalle, qualche volta pensai di parlargli, di scusarmi e, soprattutto, di farmi raccontare la sua storia. Ma rinviai sempre la decisione e non lo feci mai: se l’avessi fatto, ciò che ho scritto sin qui sarebbe stato solo l’inizio di ben altra storia.
Lo vidi l’ultima volta incrociandolo in macchina lungo San Dionigi, una domenica verso sera. Era su di una bicicletta da donna, di colore chiaro, con la retina paraveste colorata. Guardava a destra, verso la spianata del Porto di Mare. Me lo ricordo così, mentre spariva nel mio specchietto mentre era quasi arrivato a Nosedo, pensandolo felice, che tornava a casa da sua moglie su di una bella bicicletta, anche rubata, senza passare dal trani a giocarseli tra vino e carte.