Sabato 26 novembre sono tornato a teatro, per la prima volta dopo il Covid. L’occasione mi è stata proposta dal prof. Marco Giani, che mi ha segnalato la trasposizione teatrale della storia delle “Calciatrici 1933”, cui non ho voluto mancare. Ero anche curioso di vedere come il soggetto, il libro “Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il duce”, avrebbe potuto prestarsi a tale tipo di rappresentazione, pur temendo in tal senso un piccolo mattone o comunque un risultato deludente, come spesso capita quando si vede un film tratto da un libro precedentemente letto e del quale si sono esplorate sotto vari aspetti le sottese vicende reali. In realtà mi è parsa risultare vincente l’idea di averne fatto un lavoro di taglio comico, spontaneo e divertente, nel solco ispirato dalla giovanile ed incosciente leggerezza delle ragazze, nonostante e contro le avversità e la sopraffazione, grazie anche all’interpretazione delle attrici, brave nel coniugare dramma e dolore con ironia e comicità, anche con efficaci gag ed esilaranti monologhi (uno di questi degno di scuola-calcio), che hanno suscitato applausi a scena aperta ed un consistente apprezzamento finale.
Apprezzati anche, oltre che competenti e simpatici, gli interventi sul palco di Joanna Borella, vera e propria istituzione del calcio giovanile femminile milanese e di Elena Tagliabue, mamma di Regina Baresi, ex presidentessa di Inter Femminile Milano e oggi direttrice della divisione femminile della Pro Sesto. Nei loro interventi le due ospiti non hanno mancato di segnalare come ancora ai giorni nostri il calcio femminile, dalle “pulcine” in su, incontri diffidenza ed ostacoli, già nella famiglia stessa, poi nel mondo del calcio e infine nell’intera società, nella quale pregiudizio ed ignoranza segnano ancora un discreto gap con i paesi più avanzati. Ciò nonostante, e per fortuna, si sta comunque formando anche qui un ambito socio-culturale nel quale le donne, in prima serata, possano loro salutare i mariti per andarsi a fare una partita a calcetto e non, come scontato, al contrario!
Già al momento di prenotare il biglietto e non resistendo alla consueta curiosità di scoprire l’origine del nome di una via che ho l’occasione di conoscere per la prima volta, ho scoperto che la via Hermada, a dispetto del richiamo esotico, era dedicata, ad un monte che, vicino a Caporetto nello spazio e nel tempo, testimonia, come tante altre strade, un evento di storia e di sangue della Prima Guerra Mondiale. Odonomastica a parte (ma quante storie sconosciute!) e avvicinandomi alla zona di Niguarda, dove mi era stato accennato trovarsi il teatro, inserii la destinazione di via privata Hermada 8 nel navigatore, seguendo le cui indicazioni transitai davanti alla “destinazione raggiunta” e proseguii alla ricerca di un parcheggio. Dopo pochi metri, mi resi conto di essere sbucato all’incrocio con la via Graziano Imperatore, di fronte a quello che, verso destra, è ora un cantiere, ma che una volta erano stati il numero civico 48 e la casa di Ernesto Spreafico, partigiano caduto combattendo in Val d’Ossola.
Nel dopoguerra, a Milano, furono numerosi i casi di campi e squadre intitolati a caduti per la libertà e a Niguarda furono intitolate appunto a Spreafico un campo e la squadra che vi giocava, Avevo quindi incontrato questo nome (e conservata l’immagine della casa) nel corso della mia ricerca sui campi e sulle squadre della Milano d’una volta, ricerca che, di evento in evento, di storia in storia, mi fece conoscere Niguarda come quartiere molto attivo della Resistenza e di Niguarda incontrare o ritrovare persone che per essa si sacrificarono.
Una di queste persone fu la “Partigiana Lia”, la cui storia mi aveva particolarmente colpito per il fatto che fu uccisa mentre era in stato di gravidanza avanzata e proprio il giorno prima della Liberazione. Ne avevo appreso sulle pagine del libro “Giovanni Pesce “Visone” il comunista che fece l’Italia”, dove Pesce, raccontando dell’insurrezione di Milano, ne parla così:
Il primo caduto fu una bella figura di combattente, Gina Bianca Galeotti, “Lia”, figlia di contadini di Suzzara, incinta di otto mesi, raggiunta da una raffica di mitra dei nazisti in fuga dalla città. “Lia” era stata una delle maggiori responsabili dei Gruppi di Difesa della Donna ed un’instancabile collaboratrice della nostra causa. Una volta terminato il suo lavoro in via Filodrammatici, con la sua macchina da scrivere componeva i testi de “l’Unità” clandestina che in quel tempo veniva stampata a Vaprio d’Adda. La sua ingiusta morte fu per noi un colpo durissimo.
Ed entrato in teatro, appresi che la sala era dedicata proprio a lei, a Gina Galeotti Bianchi, e che in quella sala si erano tenute, dal 1943 al 1945, le riunioni clandestine delle donne antifasciste milanesi: evidentemente simbolica, quindi, la scelta del luogo ove effettuare la rappresentazione delle “Giovinette”, in sintonia con la sfida che esse avevano tentato dieci anni prima, resistendo al regime.
I luoghi della memoria sono ovunque e, almeno fino a quando ci saranno lasciati, ci parleranno sempre di quelli che furono e di quelli che avremmo voluto essere.