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IL PLACITO CAPUANO

L’Archivio dell’Abbazia di Montecassino conserva il placito di Capua (marzo 960 d.C.), considerato uno dei primi documenti in volgare italiano.
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Indice

PRIMA PARTE

1 - PREMESSA

Queste prime righe di premessa sono in realtà state scritte quando ho finito la stesura dell’articolo, avvenuta in più fasi e durata più giorni, di tutto l’articolo, quando mi sono reso conto di essermi dilungato molto di più di quanto pensassi (e penso ancora) strettamente necessario a soddisfare lo scopo che mi ero prefisso e che è riportato al punto seguente. Voglio quindi giustificarmi subito, prima che il lettore dia avvio alla lettura e possa giudicare il contenuto un po’ prolisso, troppo complesso rispetto al tema posto. In realtà è successo che, nel rivedere fonti già note o nel consultarne di nuove, al fine di rendere più accurata e verificata l’esposizione, mi sono imbattuto in concetti, narrazioni, curiosità e interpretazioni così numerosi ed interessanti che non ho avuto né la capacità di sintetizzarli adeguatamente né la forza di tralasciarli senza condividerli per quanto possibile. La ricchezza delle fonti riscontrata, sia come numero, sia come varietà dei temi sottostanti, sia come profondità di trattazione, mi è parsa piacevolmente ampia e soprattutto molto recente, a testimonianza di quanto la materia sia ancora sorprendentemente attuale e non un retaggio del passato, a differenza delle mie impressioni ricavate nei primi tentativi di trovare risposte a curiosità che la scuola non aveva soddisfatto o che semplicemente erano nate dopo. Per tale motivo, partito per chiarire un equivoco, ho finito per compiere un lungo percorso nello spazio e nel tempo della storia linguistica con tante fermate e diversi soggiorni: un percorso affascinante, con tante nuove scoperte di spazi sconosciuti e con frequenti soste per invitanti approfondimenti, al termine del quale l’equivoco stesso pare essersi piano piano perduto e ogni spunto polemico spento, entrambi sommersi dall’affascinante bellezza della storia delle parole e dei mondi ove esse sono nate e cresciute.

2 - LO SPUNTO: UNA VISIONE DISTORTA

Nel solco della locuzione virgiliana riportata nella testata del sito (si parva licet componere magnis), attraverso la quale chiedo il permesso di sottoporre le mie piccole esperienze personali dirette ai grandi fatti della Storia, tratto in questo articolo del fatto che mi è capitato più volte nella vita (ne ho accennato nell’altro articolo “Dei Dialetti e delle Pene”) di incontrare persone che, in qualche modo interessate ai dialetti, in generale o in particolare del dialetto milanese o di quello dell’Oltrepò Pavese per quanto riguarda i miei contatti più diretti, avessero di questi una visione distorta circa la loro origine, accompagnata da una considerazione alquanto negativa della lingua che magari ancora in parte parlano e che senz’altro è stata quella parlata dai loro genitori o nonni. Sostengono costoro che i dialetti non sono altro che deformazioni locali dell’italiano, avvenute soprattutto a causa del basso livello culturale dei parlanti e a seguito delle invasioni straniere!

Alcuni aspetti della questione mi hanno sempre incuriosito, a cominciare dalla percezione che la predetta visione distorta risulti molto diffusa, sia geograficamente, sia socialmente, sia culturalmente, come se essa fossa il frutto di una nozione imparata a scuola e poi entrata stabilmente nel sapere comune. Ora, siccome nessun insegnante di italiano può aver mai diffuso una teoria simile, la domanda rimane senza risposta ed anzi diventa ancor più stimolante per il fatto che tale teoria viene sostenuta con un’enunciazione di principi, cause ed effetti assolutamente univoci, come se, appunto, fosse stata scientemente da qualcuno codificata e poi diffusa attraverso uno strumento alternativo di diffusione diretta, un passaparola a sfondo parascientifico del tipo terrapiattistico. Inoltre, queste persone enunciano la tesi con una certa saccenteria, respingendo in genere ogni tentativo di spiegazione o approfondimento ed arroccandosi a difesa della loro asserita convinzione, un po’ come avviene quando si cerca convertire, inutilmente, un credente in un ragionante. Strano, ripeto, anche perché la curiosa convinzione sussiste e si tramanda da decenni, anche attraverso il passaggio di più generazioni…

Proviamoci ancora, quindi, con maggior impegno e con qualche elemento in più a supporto. Per fare questo abbandonerò da qui ogni accenno polemico verso quei curiosamente convinti, dopo aver loro comunque riconosciuto il merito per avermi offerto lo stimolo a scrivere queste righe e il fatto che essi su una cosa convengono per averlo sentito dire e che ritengono, come tutti, quasi ovvia: che l’italiano deriva dal latino.

3 - IL LATINO

Derivare qui non significa né nascere né avere origine in senso biologico, ma trarre origine, discendere, provenire, continuare in modo diverso portando in parte gli stessi caratteri essenziali. Le lingue non sono infatti essere viventi che nascono e muoiono in senso biologico e il latino può essere considerato la lingua madre dell’italiano e delle altre lingue neolatine solo in senso figurato: l’italiano in realtà non nasce dal latino, l’italiano ma lo continua. C’è infatti una catena di trasmissione che unisce ininterrottamente lingua di Roma antica con quella di Roma moderna, ab urbe condita fino ad oggi. Si può insomma affermare che l’italiano è il latino parlato oggi in Italia, come, ad esempio, il francese, lo spagnolo, il rumeno, il portoghese sono i latini adoperati rispettivamente in Francia, Spagna, Romania e Portogallo. Ma, attenzione: la frase l’italiano deriva dal latino, se non approfondita, porta ad interpretazioni e conclusioni errate, del tipo o peggiori di quella che ho citato introducendo questo articolo: il latino, in realtà, si è comportato come ogni altra lingua viva, antica o moderna e non fu una lingua “bloccata”, anzi non ci fu un solo latino, ma ci furono tanti latini, modificatisi principalmente a causa dei seguenti fattori:

Tempo – Nel periodo in cui fu utilizzato, oltre duemila anni, a partire circa dall’800 a.C., il latino si modificò inevitabilmente: il latino arcaico di Romolo e Remo fu molto diverso da quello di Cicerone, Virgilio & C. e da quello usato, non solo dai poeti, nel Cinquecento (1) , così come l’italiano di oggi è diverso da quello di venti, cinquanta o cent’anni fa (di questo, per testimonianza diretta, scriverò ancora, ma ne ho già fatto cenno in “Quale passato?”). 

Spazio – Una lingua non può non cambiare in relazione ai territori ove essa è parlata. Avviene per tutte quante le lingue vive e tutti noi sappiamo che l’italiano parlato a Milano sia diverso dall’italiano usato a Bologna, a Roma, a Napoli o a Palermo e ciò non solo per l’inflessione dialettale, l’intonazione o la pronuncia, ma anche per il lessico (2), per la grammatica ed anche per la sintassi. Per il latino, una lingua che superò i confini di tre continenti (e poi anche di quattro) e che,  nel momento di massima espansione del dominio romano agli inizi del secondo secolo d.C. era parlato da oltre ottanta milioni di individui, in Europa dall’Inghilterra e dal Portogallo ad ovest, alla Romania ed alla Turchia ad est, in Asia in tutto il Vicino Oriente (3), a sud nei territori costieri dell’Africa, non era possibile mantenersi come un blocco uniforme ed essere parlato in modo identico a migliaia di chilometri di distanza e le testimonianze ci dicono invece che ci furono contemporaneamente tanti diversi latini. Già qui si potrebbe aprire il solco per la dimostrazione dell’origine dei dialetti, che, non dimentichiamo, ma è una raccomandazione anche per me che sto scrivendo, costituisce lo scopo di questo articolo.

Abitudini (stile e stato) – Nessuno parla e si scrive allo stesso modo in tutte le circostanze, ma può cambiare di tono e di livello a seconda della situazione in cui si trova. Anche qui vale la nostra l’esperienza di tutti i giorni che ci racconta come l’italiano (o gli italiani) che usiamo in diverse situazioni formali sia diverso da quello (o da quelli) parlato in famiglia o con gli amici; ciò anche nella forma scritta: per quanto mi riguarda, ad esempio, una lettera ai miei genitori quando ero a militare era scritta in uno stile molto diverso dai rapporti che scrivevo come ufficiale al mio comandante. Lo stesso è stato anche per il latino, e non riguardava solo le persone di poca cultura. (4) La diversità socioculturale, l’ambiente familiare, la scolarità (o l’analfabetismo), il tipo di lavoro influenzano in modo determinante il linguaggio e ne determinano la diversificazione secondo vari modelli ed anche le scelte di espressione. Anche qui l’esperienza diretta ci aiuta a capire e ad immaginare l’analoga situazione ai tempi del latino.

Il latino non è comunque mai morto, ma si è trasformato e, attraverso il volgare, è arrivato sino a noi con i dialetti e le lingue romanze. Numerose parole sono però giunte intatte sino a noi: bus (da omnibus),virus (la parola più attuale nel 2020), aula magna, referendum, rebus, ultimatum, eccetera. Tra le diverse varietà di latino che si sono quindi mescolate e sovrapposte nel tempo, nello spazio e nelle abitudini, bisogna però alla fine registrarne due, che si distinguono per importanza storica, ossia il latino classico e il latino volgare, due aggettivi da sottolineare come termini convenzionali: classico e volgare. Nella sostanza e con poca approssimazione, volendo, si potrebbero anche sostituire con scritto e parlato.

Il latino aveva ovviamente il suo alfabeto e la sua fonetica e questa ci riserva una sorpresa. L’alfabeto latino era composto all’origine di venti caratteri e le lettere J, U, W, Y e Z erano sconosciute;  diventarono ventuno attorno nel terzo a.C., quando fu aggiunta la G, e poi ventitré, con la successiva introduzione della Y e della Z, a seguito dell’influenza greca su Roma, per riportare in latino i corrispondenti caratteri dell’alfabeto greco.  Il latino si stabilizza così nel periodo della tarda Repubblica, quindi dal primo secolo a.C. al primo secolo d.C., quando, arrivato a questa fase della sua storia, diventa maturo e smette di subire influenze e di aggiornarsi. 

Chi non ha studiato latino (e forse anche molti che l’hanno studiato) non se ne sarà probabilmente accorto, ma tutti rimarranno molto sorpresi nel sapere che il latino che s’è studiato a scuola non è assolutamente il latino ufficiale, quello classico, il cui recupero è attraverso un lungo e faticoso lavoro iniziato da Erasmo da Rotterdam e proseguito dai linguisti successivi e che è stato definito come latino restituto (restituito, recuperato) o come con pronuncia restituta. Il vero latino, che non abbiamo studiato, aveva delle caratteristiche veramente molto particolari, almeno per me divertenti da scoprire. Per esempio ricordo che, da bambino, avendo riconosciuto alcuni termini in italiano (o quasi) nelle tante iscrizioni in lingua latina e cercando di capirne il significato, ero incuriosito dalla lettera V, che intuivo essere spessissimo usata laddove ci si poteva aspettare una U. Uno scalpellino pigro? Un vezzo aulico di classicismo? No: nel latino la V aveva semplicemente un suono più dolce, cioè come la nostra attuale U. Occorre quindi, per esempio, sfatare il mito del noto saluto romano “Ave”: quando si salutava una persona non si diceva ave ma si diceva aue e, se le persone erano due o più, si usava il plurale “Avete”, pronunciato come auete! A molti “Ave” richiamerà certamente il celebrato “Ave, Caesar, morituri te salutant”: ebbene, qui c’è un’altra sorpresa. A scuola insegnano che il dittongo ae in latino si pronuncia “e”, quindi Caesar si leggeva “Cesar”? No! La “C” e la “G” si pronunciavano dure. Non dicevano “Cesar”, ma “Caesar”, con la “C” di cane, così come, per indicare Cicerone, dicevano “Chichero” e non “Cicero” semmai dicevano “Chichero”, o, se volete, per essere fedeli alle prime trascrizioni in volgare, “Kikero”. I tedeschi hanno confermato in merito la loro proverbiale precisione e avrebbero chiamato il loro imperatore Kaiser, mentre i russi, per il loro Zar , si sono portati a Mosca solo la desinenza, la radice forse persa nel lungo viaggio.

4 - QUEI VOLGARI DI ITALIANI

Tornando a quel tempo, avevamo visto come sul suolo italiano, ossia quello che noi oggi chiamiamo Italia, non esistesse una sola lingua ma esistessero più lingue o, come si usa dire, più volgari, tutti nati dal latino, che convivevano nello spazio geografico e culturale italiano e che erano ancora ben lontani dal diventare poi una lingua unitaria. Possiamo quindi proporre di riferirci a quei linguaggi citandoli al plurale come gli italiani che si parlavano nella penisola, non dimenticando quanto parallelamente avveniva nel resto dell’ex impero.

Dal punto di vista storico, abbiamo visto dalle definizioni sopra riportate che l’italiano è una lingua codificata tra il Quattrocento e il Cinquecento sulla base del fiorentino letterario usato nel Trecento”. Infatti, una lingua non è tale senza una letteratura propria, ma è anche vero che una letteratura non si sviluppa se prima non nasce una lingua. Si è già fatto cenno alla trasformazione del latino nelle diverse lingue volgari avvenuta grazie alla comunicazione orale. Poi, progressivamente, i parlanti nei diversi volgari hanno preso coscienza delle trasformazioni ormai in atto, fino a quando qualcuno ha registrato consapevolmente il cambiamento su un documento non ancora letterario, ma di indubbia validità amministrativa, culturale o scientifica e ciò è avvenuto in Italia solo a partire dal nono secolo, mentre i primi testi letterari italiani risalgono invece alla fine del dodicesimo secolo. I numerosi volgari locali, che rappresentano le varie trasformazioni del latino avvenute in diverse zone della nostra penisola ,sono in realtà le forme più antiche dei nostri dialetti, i quali devono pertanto essere definiti come delle vere e proprie lingue romanze (vedere seguente punto 5), ancora oggi parlate sul suolo italiano. Perciò ribadisco e ripeto il concetto fondamentale: i dialetti non sono deformazioni locali dell’italiano, come molti erroneamente pensano, ma sono i discendenti dei singoli volgari italiani delle varie zone della nostra penisola. Quello che noi oggi chiamiamo italiano non è altro quindi  che una naturale evoluzione di uno tra i tanti volgari esistenti e precisamente il volgare fiorentino del Trecento, che si è imposto definitivamente su tutti gli altri sono a partire dalla prima metà del Cinquecento, soprattutto per l’eccellenza della sua produzione letteraria.

Sono almeno tre i documenti celebrati come le prime testimonianze scritte nei volgari italiani: l’Indovinello Veronese, il Placito Capuano e gli affreschi della basilica di San Clemente a Roma. Essi sono presi a dimostrazione del fatto che. ad un certo punto, per esigenze pratiche diverse e senza pretese letterarie, qualcuno si rese conto di dover comunicare per iscritto in un linguaggio che non era più il latino, che ormai non poteva più essere compreso dai destinatari, ma era la lingua che questi parlavano e comprendevano. Sono documenti limitati e marginali, tracce che consentono ai linguisti di fissare una data certa dei primi scritti volgari e poco più, mentre bisognerà attendere ancora qualche secolo affinché sia la letteratura a certificarne la consacrazione.

E a farlo sarà l’eccellenza letteraria fiorentina: nessuno può dubitarne, nemmeno di farne paragone alcuno. Però una nota, a questo punto ed ai soli fini di maggior chiarezza di quanto sto scrivendo, vorrei inserire: Dante è stato il più alto autore della produzione letteraria dialettale-volgare fiorentina e quindi, come abbiamo visto, italiana. Bonvesin de la Riva è stato invece il primo e maggior autore della produzione letteraria dialettale-volgare milanese. Il confronto, ripeto, non si pone, ma un parallelismo di storia linguistica può essere consentito, in quanto Dante e Bonvesin de la Riva erano perfettamente contemporanei e scrivevano ciascuno nei loro volgari rispettivamente di Firenze e di Milano: il primo si chiamò italiano, modificandosi nel tempo (poco perché era molto… scritto) fino ad oggi, il secondo dialetto milanese, modificandosi molto di più in quanto meno sostenuto dalla corrispondente forma scritta. Veneziano e napoletano, che vantano retroterra letterario di tutto rispetto e hanno goduto di ampia autonomia e identità politica e geografica, possono confermare le tesi, ponendosi in qualche modo a metà strada tra le due condizioni (per il napoletano occorre addirittura registrare l’ampia produzione teatrale e musicale ancora contemporanea).

Ma questo era solo un mio arbitrario inciso. Ora per affrontare la questione da un altro punto di osservazione bisogna valicare le Alpi medievali: quello che lì succedeva al latino, l’abbiamo già accennato, era assolutamente parallelo dal punto di vista linguistico a quello che accadeva sul territorio italiano. Ma è studiando le diversità che si può ampliare la conoscenza e meglio si può capire come andarono le cose, anche in Italia.

5 - UN'OCCHIATA IN GIRO

Le lingue latine o lingue neolatine sono oggi considerate quelle derivate dal latino volgare, chiamate anche romanze. Volgare non vuole dire rozzo, ma “parlato dalla popolazione” (dal latino vulgus, ‘popolo’), mentre romanze deriva dall’avverbio latino romanice (‘romanamente’, a sua volta dall’aggettivo romanicus, quindi ‘parlare romanamente’), contrapposto al ‘parlare latinamente’. L’area in cui queste lingue si sono sviluppate, e sono ancora parlate nelle loro versioni contemporanee, viene chiamata Romània e corrisponde e quella che era stata la parte occidentale dell’Impero Romano, esclusa la Britannia, con l’aggiunta di altre isole linguistiche neolatine minori diffuse nei Balcani (lingue romanze orientali), alle quali si aggiunge il territorio dell’attuale Romania. Nel Nordafrica l’invasione araba (avvenuta nel VIII secolo) ha cancellato ogni volgare latino che vi si era sviluppato, come la persistenza dell’Impero d’Oriente nell’Europa Orientale e nell’Anatolia, con l’impiego prevalente della lingua greca a livello ufficiale, ha impedito la diffusione popolare del latino, prevenendo sviluppi linguistici analoghi a quelli occorsi in Occidente.

Ma torniamo all’Ottocento. Mentre in Italia si regolava una disputa con il Placito di Capua, Oltralpe la questione latino-volgare-lingue romanze, pur avendo seguito lo stesso percorso di tutta la Romània, era già in uno stadio molto più avanzato. Infatti, la prima presa di coscienza della diversità e dell’alterità del volgare rispetto al latino è sancita da un deliberato del Concilio di Tour dell’813, convocato da Carlo Magno, in base al quale la liturgia, roba da preti, deve continuare ad essere celebrata in latinorum, mentre la predicazione deve essere fatta in lingua romana rustica, ossia in volgare, affinché tutti la possano comprendere. La consapevolezza del divario tra le due lingue avviene quindi ad un livello superiore e, dobbiamo supporre, dopo un tempo abbastanza lungo per potersi affermare tra la gente e poi portare la classe dirigente ecclesiastica, notoriamente conservatrice (la liturgia in latino si sarebbe poi conservata sino al 1970) a emettere disposizioni conseguenti e valide per tutta la comunità. Si era quindi così sancito con un atto pubblico di alto profilo (concilio) il divario ormai incolmabile riscontrato tra il latino storico e il volgare dilagante: anzi, tale divario fu ulteriormente ribadito e rafforzato attraverso una vera e propria opera di restaurazione del latino storico, depurandolo degli eventuali inquinamenti e riavvicinandolo all’antica purezza.

Eravamo in pieno Impero carolingio, che, oltralpe, comprendeva i territori grossomodo corrispondenti oggi a Francia, Germania, Belgio e Olanda. In tali territori, al bilinguismo classico latino-volgare, si era sostanzialmente sostituito il bilinguismo volgare latino-volgare germanico (theodiscus, di ceppo non neolatino) e l’editto di Tour fu lo snodo ecclesiastico che sancì in qualche modo anche questo cambiamento: Ma “l’incoronazione” delle due separazioni (verticale latino-volgare e orizzontale volgare neolatino (francese) e volgare germanico (tedesco) avvenne ad un livello che più alto ed autorevole non si poteva immaginare, al massimo livello di potere, non più ecclesiastico, ma imperiale: il giuramento di Strasburgo, avvenuto nella cattedrale della città il 14 febbraio dell’842 e nel quale i due fratelli Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico si giurarono fedeltà reciproca, promettendo che nessuno dei due avrebbe combattuto contro l’altro o stretto patti di alleanza con altri. Carlo, di lingua antico francese, giurò in tedesco, mentre Ludovico, di lingua tedesca, giurò nella lingua romanza del fratello. E se lo scambio fu alto ed apprezzabile per il livello dei giuranti, per le finalità degli intenti e per il luogo in cui avvenne, grandioso lo fu sotto l’aspetto linguistico e sociale: i due fratelli avrebbero potuto scambiarsi il giuramento in privato, in latino o in  qualsiasi altra lingua, invece scelsero quella forma pubblica e formale affinché le truppe di entrambi i fratelli ed i cittadini in generale potessero comprendere i loro giuramenti e gli ufficiali dei due eserciti giurarono poi nelle rispettive lingue che non si sarebbero mai schierati contro le truppe dell’altro fratello.

Ci siamo un po’ allontanati dall’Italia, dal latino e dall’italiano. Ma quanto appena esposto, pur avvenuto fuori dai nostri stretti confini linguistici, ci sembra comunque interessante e esemplificativo: averne brevemente parlato ci sembra d’aiuto nella comprensione del tema che ci siamo posti all’inizio, sia per gli elementi storici, linguistici e sociali assolutamente comuni, sia perché consente di annotare il taglio “democratico” degli eventi, impensabile per l’epoca: i due storici “poteri”, quello della chiesa e quello dello stato, intervengono ciascuno nella sfera di loro stretta competenza, ma nella stessa direzione, per accettare e ed affermare una realtà nata e sviluppatasi tra il popolo (vulgus) e non nelle strette stanze di tali poteri, ove per secoli regnerà ancora il latino, accompagnato dalle altre due lingue sacre: il greco e l’ebraico.

Ci sarebbe ancora tanto da dire su quanto avvenuto in seguito dal punto di vista linguistico nei territori oggi francesi (e parzialmente belgi), ma, per rientrare al più presto in Italia, ci limitiamo ad aggiungere le seguenti annotazioni riepilogative:

  • Il giuramento di Strasburgo (842) fu il vero atto di nascita della lingua francese nei territori gallici
  • Tale trattato pose le basi per la nascita dell’entità politica nazionale corrispondente all’odierna Francia (mille anni circa prima dell’Italia)
  • Si realizzò definitivamente una netta divaricazione tra la romana lingua ivi parlata e la teotisca lingua in Germania
  • Il primo testo letterario certo in lingua francese fu la “Sequenza di Sant’Eulalia” (888)
  • Il territorio e la lingua francese si divisero in due parti: il Nord, nel quale la lingua romanza più utilizzata è quella d’oil (francese antico) e il Sud dove si parlava la lingua d’oc (provenzale antico)
  • In ciascuna delle due zone convivevano diversi dialetti regionali, riconosciuti ognuno come sotto varianti dei due ceppi principali
  • Ciascuna delle due lingue aveva una diversa specializzazione: in lingua d’oil prevalgono le storie delle imprese di eroi e cavalieri, mentre in lingua d’oc viene esaltato il sentimento dell’amore.
  • Parigi si affermò presto quale centro del potere politico ed economico della Francia, con conseguente e parallela affermazione esclusiva della lingua che vi si parlava, il franciano, una variante della lingua d’oil, parlato nella regione dell’Île-de-France

 

6 - DALLE ORIGINI AL XIX SECOLO: IL LUNGO VIAGGIO

Non è difficile riconoscere in quanto avvenuto in Francia ciò che sarebbe avvenuto in seguito in Italia, ove il toscano parlato a Firenze avrebbe fatto ciò che Oltralpe fece il franciano parlato a Parigi. Per molto tempo, le lingue due francesi e poi il francese definitivo ebbero grande successo sovra nazionale: oltre l’inizio della comparsa e dell’affermazione dell’italiano, poeti italiani si espressero in lingua d’oc e prosatori in lingua d’oil, mentre le prime grammatiche della nuova lingua furono scritte fuori dai confini francesi: in Catalogna e in Inghilterra.

In Italia la consacrazione del termine “italiano” con significato di indicazione di una lingua resterà a lungo indefinita, almeno fino al Quattrocento, tardissimo rispetto all’affermazione del francese, ma similmente a quanto avvenne per esempio per lo spagnolo (castigliano). L’Italia fu a lungo condizionata dalla sua estrema frammentazione dialettale orizzontale, senza particolari emersioni dal livello generale e quindi senza alcuna consapevolezza di distinzione linguistica: la confusione doveva essere tanta se ancora i linguisti (anche stranieri) del Duecento riconoscono esserci in Italia solo due parlate volgari: il lombardo (lombardicum) e l’apulo, cioè l’italiano settentrionale e l’italiano meridionale, ciò pur considerando che a lungo si dava al termine “lombardo” il significato di “italiano” e che all’epoca anche gli italiani che erano residenti all’estero e perlopiù identificati semplicemente come “lombardi”.

Dopo aver parlato molto di storia, ma dalla storia ripartendo, occorre tornare adesso alla lingua, cioè a parole, grammatica e sintassi e conoscere la loro evoluzione più da vicino.

L’Impero Romano raggiunse la sua massima estensione intorno ai 120 d.C. e comprendeva, come abbiamo visto, i territori dell’Europa centro occidentale e balcanica, quelli nordafricani e quelli dell’asia minore. La lingua della comunicazione quotidiana doveva essere teoricamente la stessa, il latino, in tutte le aree dell’impero, ma il latino volgare presentava in realtà una miriade di varietà locali influenzate principalmente dalle parlate precedenti alla conquista romana, ovvero le lingue già usate dalle popolazioni colonizzate, le cosiddette “lingue di substrato”. Tali lingue avevano lasciato residui della pronuncia, nel lessico, nella grammatica e nella sintassi. Tali residui, vere impronte di base su cui si calò il latino dei conquistatori, sono ancor oggi riconoscibilissimi ed innumerevoli in tante lingue e dialetti romanzi. Ne cito qui solo due, per brevità, relativi alla sola fonetica: in Iberia non possedevano la effe e la sostituirono con un’acca muta, quindi pronunciando e scrivendo poi humo al posto di “fumo” ed herrera al posto di “ferraio”, a Bergamo e a Brescia i Galli colà stanziati non riuscivano a pronunciare la esse e quindi, possedendo una forte attitudine all’aspirazione vocale, la sostituirono alla sconosciuta esse ed oggi è ancora una caratteristica fonetica ben presente nei dialetti, specie fuori città e nelle valli, e spesso oggetto di gag legate alla traduzione di sotto e di sopra. Ma si potrebbero velocemente aggiungere, per i dialetti settentrionali, altre caratteristiche grammaticali, come l’uso del doppio pronome (forte + debole, come in “Le la va”) o la costruzione della forma interrogativa obbligatoria nei dialetti basso padani (“Vala le?”). Numerosi sono i libri e le pubblicazioni di linguistica che trattano del substrato linguistico presente nelle lingue e nei dialetti romanzi e del substrato celtico in particolare, per quanto riguarda i dialetti settentrionali italiani.

Nonostante la differenziazione tra gli idiomi parlati, la fitta rete di scambi tra le varie regioni dell’impero e la capillare presenza dell’amministrazione, delle istituzioni, dell’esercito ed anche della scuola, non intesa chiaramente col significato di oggi) hanno comunque impedito una totale separazione linguistica e consentito la permanenza di una base comune di comprensione.

La situazione mutò nel quinto secolo con il crollo dell’Impero Romano d’occidente (476 d.C.), considerato convenzionalmente dagli storici anche come l’inizio del medioevo, e l’avvento delle invasioni barbariche.  Queste diedero luogo quindi ad un altro momento di contatto tra popoli di lingue diverse, nel quale i nuovi arrivati diedero però ai residenti, che parlavano i dialetti romanzi, un contributo marginale, chiamato super strato, costituito quasi solamente da prestiti lessicali, cioè da vocaboli di uso comune, soprattutto per loro. (2) La differenziazione tra i dialetti, però, si accentuò comunque, in quanto la frantumazione politica determinò una dispersione amministrativa, una quasi totale scomparsa degli scambi e lo spopolamento delle città, centri di scambio commerciale e culturale, facendo sì che ogni realtà regionale rimanesse praticamente isolata, esposta a lingue si super strato differenti e via via sempre più impermeabile a influssi comuni.  Solo il latino, la lingua scritta della chiesa e della cultura, continuava ad essere praticamente invariato, mentre i volgari neolatini si conservarono, evolvendosi a livello di lingua parlata, prima di passare, come abbiamo visto, all’uso scritto e a formare poi le lingue romanze. Naturalmente le lingue romanze si

svilupparono solo nelle province romane di più antica fondazione, dove il processo di latinizzazione linguistica e culturale delle popolazioni locali era stato più lungo e più intenso, come l’Italia, la Gallia e la penisola iberica. Un caso a parte è rappresentato dalla Dacia, cioè le odierne Romania e Moldavia, che pur essendo stata una provincia romana per meno di due secoli, ha visto svilupparsi e confermarsi una lingua neolatina all’interno dei propri confini, circondata da regioni e assoggettata da popoli che parlavano lingue di diverso ceppo. In altre regioni, come nella parte orientale dell’impero, dove era ben radicato l’uso del greco, i volgari neolatini non si svilupparono o si dissolsero e le lingue romanze non poterono formarsi.

Per comprendere meglio la complessità del formarsi dei diversi latini volgari nelle varie e vaste zone dell’impero e i multiformi risultati del processo, occorre anche considerare che l’espansione di Roma è avvenuta in fasi diverse, anche alterne, della romanità e del latino e che l’immigrazione dei latini nelle terre conquistate fu molto variegata: militare, attraverso l’affidamento di terre ai veterani o alla stabilizzazione di interi reparti, amministrativa, con l’insediamento dei capi villaggio (dai quali deriva oggi il maggior numero di toponimi in Italia) e del loro seguito o economico, con il trasferimento di gruppi di popolazione di origine specifica. L’insieme dei territori ove si parlano lingue romanze è stato definito, ai fini dello studio linguistico, con il nome di Romània.

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SECONDA PARTE

1 - RIPRENDIAMO IL DISCORSO

Il latino era la lingua più ricca tra quelle dei popoli d’Italia è la più regolarizzata, grazie a scrittori e grammatici, dalle opere di una foltissima schiera di scrittori quali (veloce cernita da Wikipedia relativa ai due secoli a cavallo dell’anno zero): Giulio Cesare, Cicerone, Lucrezio, Virgilio Tito Livio, Orazio, Catullo, Ovidio, Seneca, Giovenale, Tacito, Marziale. Una lingua di altissime potenzialità culturali, fissata nell’uso scritto da scrittori d’eccellenza, detto perciò latino classico, che per secoli e per secoli fu considerato come il vero latino. Naturalmente questo latino era diverso da quello comunemente parlato, detto anche latino volgare, utilizzato da tutti nello svolgimento delle attività quotidiane e che era diffuso in tutte le province dell’Impero Romano. Attenzione però: “volgare” vuol dire diffuso, popolare, e non rozzo, sconcio. Questo latino parlato presentava da subito una miriade di varietà locali, influenzate principalmente dalle parlate precedenti alla conquista romana, quelle che si chiamavano lingue di substrato; poi si affermarono altre parlate, attraverso la diffusione del cristianesimo, con i suoi contenuti di fede di origine ebraica e con le prime comunità di credenti di lingua greca; infine ci furono le invasioni dei barbari e il territorio, che per secoli era stato unificato sul dominio di Roma, si frantumò in più regni dominati da vari popoli germanici, dai Franchi ai Vandali, dagli Ostrogoti ai Longobardi. I particolarismi linguistici delle varie zone della cosiddetta Romània, cioè il nome popolare con cui si designava l’impero romano, si svilupparono maggiormente sia per le condizioni di isolamento, sia per l’influsso delle lingue germaniche in regni barbarici che prefigurano alla lontana gli stati dell’Europa moderna.

Con il crollo dell’Impero Romano d’Occidente nel quinto secolo d.C. assistiamo al crollo delle strutture amministrative burocratiche e militari: significa che il latino non è più necessario per amministrare e commerciare, si verifica un restringimento degli orizzonti sociali, politici ed economici e il latino deve fare i conti anche con la lingua dei nuovi dei nuovi padroni. Inoltre in Italia la scuola perde il suo alto valore sociale, pochissime persone potranno studiare, pochissime parleranno e scriveranno in latino classico, seguendo il corso dell’evoluzione del latino parlato verso gli idiomi neolatini e si osservano trasformazioni che investono tutta la struttura della lingua: fonologia, morfologia, lessico e significato delle parole. È evidente che i cambiamenti così profondi nella lingua si sono verificati nel corso di alcuni secoli e in diversi luoghi ma il fatto che queste trasformazioni siano dilagate e si siano definitivamente affermate sta a dimostrare che l’intera struttura sociale politica e culturale dell’impero romano d’occidente stava andando in crisi almeno a partire dal terzo secolo: l’impero infatti crollò nel quinto secolo esempio i fonologia il dittongo ae è divenuto e, la h non si pronuncia più, nella morfologia della sintassi sono cadute le consonanti finali che distingueva i casi e si sviluppa una reazione a catena: occorre perciò mettere il soggetto al primo posto, usare le preposizioni e gli articoli (e le proposizioni articolate) assistere al cambiamento profondo nei significati delle parole. Come in tante altre lingue anche in latino esistevano per indicare uno stesso oggetto due o tre parole di cui una poteva avere un significato più generale, più astratto, più sofisticato e soltanto un significato più concreto: alla fine, con il decadere della cultura scritta e del bisogno di usare termini più generali, un po’ alla volta non si usò più per esempio ignis e restò in uso per tutti i significati focus il lessico del latino si popolarizzato progressivamente e sarà questo il lessico che passerà con alcune variazioni da una lingua all’altra fino alle lingue neolatine.

Entrambi i rami del latino quello classico o scritto e in quello parlato hanno lasciato un’eredità importante nel continente europeo e a partire da questo anche nel continente americano dopo la colonizzazione del sedicesimo secolo in latino classico superato una fase di scarsa conoscenza dell’alto medioevo diventò la principale lingua di cultura di tutta l’Europa centro occidentale settentrionale almeno fino al diciottesimo secolo hai studiato a fondo dall’epoca dell’umanesimo insieme con il greco ha fornito a tutte le lingue europee migliaia di termini e anche modelli di costruzione sintattica per la lingua colta moderna non solo letteraria ma delle discipline tecnico scientifiche mediche filosofiche giuridiche economiche e sociali il latino volgare ha avuto un destino non meno importante è vero si estinse in una metà circa dei territori dell’impero sulle coste africane nel vicino Oriente e in Asia minore era la lingua più economica e sociale si trasmise anche nelle città di territori al confine con cui occupati dei germani e in ma nella parte restante è rimasto vivo attraverso le lingue di oggi continuo a trasformarsi da luogo a luogo, generando una quantità di idiomi locali i dialetti alcuni dei quali attraverso l’uso ci hanno dato nel tempo le lingue neolatine nei liquidi relative oggi riconosciute affermate sono in italiano il francese sei stata l’anno in rumeno in latino quest’ultime due varietà una Svizzera e una italiana tavole essere più precisi bisogna indicare anche gli altri rami principali.

Il territorio latinizzato, che con la caduta del potere di Roma subì il maggiore smembramento politico e quindi anche linguistico fu quello dal quale era partito tanti secoli prima il processo di unificazione lo spazio cioè che corrisponde all’Italia odierna e alle isole che la circondano l’arrivo di ondate diverse di occupatori germanici le ondate migratorie della popolazione greco bizantina l’entrata di nuclei di popolazioni slave a nordest e infine dell’occupazione araba della Sicilia sottomisero questo territorio a poteri esterni e agli influssi linguistici diversi in quelle circostanze la popolazione romana abbandonare città e si rifugiò nei luoghi più interni difendibili specialmente dal sesto al decimo secolo prevalse la tendenza all’isolamento e alla vita dei piccoli centri della vita in centri maggiori ebbe inizio solo nei secoli undicesimo e dodicesimo quando le città costiere poterono riprendere a trafficare nei mari un po’ alla volta il miglioramento della vita economica e sociale si trasmise anche nelle città dell’interno e si prepara così quella splendida fioritura della civiltà italiana perché la dicessimo e quattordicesimo secolo. Politicamente però l’Italia restava spezzettata in molti Stati di piccole dimensioni lo stato più grande era il Regno della Sicilia, costruito dai Normanni, cioè i nuovi dominatori arrivati dall’Europa del nord nell’undicesimo secolo invece il resto dell’Italia così risultata vedeva questi piccoli stati in perenne conflitto tra loro con spietate vendette da comune a comune per esempio le cause di queste pensioni erano soprattutto la difesa dei rispettivi interessi economici o l’appoggio dato ora a loro ora all’altro dominatore esterno che sfruttava queste stesse rivalità per imporre la sua autorità questo quadro storico e politico è rimasto sostanzialmente inalterato fino al 1860.

2 - I LINGUAGGI DELLE LINGUE

Non ci sono solo lingue diverse, ma ci sono anche linguaggi diversi, ciascuno specializzato rispetto alle lingue di appartenenza e fortemente caratterizzanti le stesse quando vi siano presenti in modo esclusivo o comunque abbondante. Un esempio di casa nostra lo possiamo trovare nell’uso del verbo “amare”, per il quale il modo di dire “ti amo”, essendo stato utilizzato soltanto dai poeti nel fiorentino del 300, non è mai entrato nel volgare; quindi non è mai entrato nei dialetti italiani e di conseguenza nemmeno nella lingua italiana parlata correntemente. Pertanto “ti amo” si sente solo nelle canzoni, in qualche film e si legge in qualche libro romantico, ma solo tra fidanzati, amanti e nelle coppie sposate. Per decine di generazioni invece, è stata “ti voglio bene” la bivalente dichiarazione di massimo affetto sia per le coppie, sia tra madre e figlio e si può dire che oggi l’italiano disponga, a differenza delle altre lingue, di due verbi, “amare” e “voler bene”, per indicare affetti e ruoli così diversi. “Amare” è quindi l’indicatore di una cesura netta tra i volgari neolatini, compreso l’italiano corrente, e il fiorentino, “lingua dell’amore” forse per l’eredità letteraria dalla lingua d’Oc, cui prima s’è fatto cenno. Ma è più forte “amare” o “voler bene”? Verrebbe da dire il primo se si pensa al “ti amo” detto alla propria amata, rispetto al meno impegnativo “ti voglio bene”, ma è certo il secondo, se “ti voglio bene”  è la dichiarazione dell’amore, senza fine, di una madre al proprio figlio. A testimoniare la maggior forza del “ti voglio bene” è un’altra lingua romanza, la “lingua dell’amore per eccellenza, che fonde come nessun’altra letteratura e parlata, la “lingua dell’amore” per eccellenza: il dialetto napoletano, nel quale la sconfinata produzione letteraria e musicale (per i testi, ovviamente) ha trovato migliaia di occasioni per dire te voglio bene assaje, mentre un “ti amo” non si trova assolutamente, mentre se   ne è sommersi nelle canzoni francesi.

Un altro linguaggio, inteso come predisposizione e specializzazione, è stato quello presente nel greco antico, parlato nelle città greche dell’Italia meridionale, in quelle colonie che culturalmente erano molto più avanti dei romani (forse per l’offesa di ciò Mussolini pensò bene che Roma dovesse spezzare le reni alla Grecia?) e che regalarono al latino tutta una gamma di termini veramente fondamentali, come quelli relativi al commercio e alla navigazione, alla filosofia, alle scienze, al pensiero astratto, alla teoria, all’etica, tutte le parole che vanno oltre il mondo del concreto e del visibile.

Nelle regioni ove si parlava il greco al momento dell’invasone di Roma, la leadership delle lingue rimase al greco, in particolare a un dialetto greco che era anche molto facile da parlare ed apprendere, il cosiddetto greco alessandrino o greco ellenistico, chiamato koinè dialektos.

3 - L’ITALIANO IN ITALIA

Che l’italiano, a partire dalla consacrazione del volgare fiorentino, abbia faticato a diventare lingua ufficiale dello stato italiano è testimoniato da una data: il 17 marzo 1861. Quel giorno, per decreto, fu dichiarata l’Unità d’Italia. Non sarebbe stato così semplice stabilire una lingua unica per gli italiani: può sembrare strano, ma non fu una cosa così semplice e condivisa, visto che sul territorio unificato si parlavano ancora centinaia di idiomi diversi, in parte incomprensibili tra loro. Sulla base della cospicua produzione letteraria precedente, a oltre cinquecento anni da “La Divina Commedia” e sull’abbrivio del definitivo pronunciamento di Manzoni, sancito con la scrittura de “I Promessi Sposi”, fu deciso che quella sarebbe stata la lingua unificata e unificante con cui scrivere in Italia.(5) Solo in teoria e per le classi più abbienti, però, in quanto a lungo seguì il dibattito sulla effettiva necessità di una pubblica istruzione: la destra sosteneva che sarebbe stato inutile spendere soldi per insegnare la lettura e la scrittura a contadini e operai, che non ne avevano affatto bisogno per il loro lavoro e che anzi ne avrebbero tratto nocumento, tutto a scapito invece del tempo ed dell’energia da dedicare al lavoro.

Fu solo con l’avvento dei primi governi di sinistra, con l’industrializzazione, con l’urbanizzazione, con la pressione del pensiero socialista, con la prima sindacalizzazione, che furono a poco a poco introdotte politiche di scolarizzazione, atte a sottrarre dalla condizione d’oltraggio la “scuola per tutti”, l’alfabetizzazione e la diffusione unificata della lingua nazionale. Purtroppo, specie nelle campagne, il processo fu lento e difficile: troppe generazioni rimasero a lungo proletarizzate ed i giovani, anche se capaci e contro le raccomandazioni di eroici insegnanti, abbandonarono prematuramente gli studi per aiutare le famiglie nei precari lavori dei campi. La situazione migliorò con le politiche sociali del dopoguerra, con il miglioramento delle condizioni di vita, compreso (purtroppo?) l’abbandono delle campagne e il trasferimento massiccio nelle città: molti genitori, che non avevano potuto completare gli studi prima della guerra, videro i propri figli andare a scuola con i figli dei “signori”, diventare adulti avendo completato il ciclo dell’obbligo ed essersi diplomati o laureati.

Sta di fatto che solo negli anni Settanta del Novecento, dopo un lungo processo composto da tanti fattori, tra i quali l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa sicuramente fu l’ultimo e determinante, si è potuta affermare una lingua nazionale per tutti gli italiani, finalmente stabilizzata e sufficientemente uniforme.  

4 - ITALIANO, LATINO E DIALETTI OGGI, HINC HODIE, AL DÌ D'INCOEU

Secondo Oxford Languages, l’italiano è una “Lingua letteraria fondata sul fiorentino, consolidata al livello artistico soprattutto attraverso la ricchezza del vocabolario dantesco e la selezione di quello petrarchesco, trasmessa in modo praticamente stabile da sei secoli; peculiare rispetto alle lingue letterarie straniere anche per il precoce prestigio e per l’esclusivismo oligarchico che l’ha caratterizzata rispetto al parlato, sino quasi ai nostri giorni.” Secondo Wikipedia, invece, l’italiano è una “Lingua romanza parlata principalmente in Italia. È classificato al 23º posto tra le lingue per numero di parlanti nel mondo e, in Italia, è utilizzato da circa 58 milioni di residenti. Nel 2015 l’italiano era la lingua materna del 90,4% dei residenti in Italia, che spesso lo acquisiscono e lo usano insieme alle varianti regionali dell’italiano, alle lingue regionali e ai dialetti. In Italia viene ampiamente usato per tutti i tipi di comunicazione della vita quotidiana ed è largamente prevalente nei mezzi di comunicazione nazionali, nell’amministrazione pubblica dello Stato italiano e nell’editoria. Oltre ad essere la lingua ufficiale dell’Italia, è anche una delle lingue ufficiali dell’Unione europea, di San Marino, della Svizzera, della Città del Vaticano e del Sovrano militare ordine di Malta. È inoltre riconosciuto e tutelato come lingua della minoranza nazionale italiana dalla Costituzione slovena e croata nei territori in cui vivono popolazioni di dialetto istriano. È diffuso nelle comunità di emigrazione italiana, è ampiamente noto anche per ragioni pratiche in diverse aree geografiche ed è una delle lingue straniere più studiate nel mondo. Dal punto di vista storico, l’italiano è una lingua codificata tra il Quattrocento e il Cinquecento sulla base del fiorentino letterario usato nel Trecento”.

Attraverso le due definizioni sopra riportate possiamo quindi condividere appieno il significato di italiano, inteso come lingua, compreso il risalto che la definizione oxfordiana pone sul fatto che esso sia fondato sul (dialetto) fiorentino: già solo una profonda riflessione su ciò credo basti a comprendere, almeno in parte, il fenomeno al centro della questione che ho posto in questo articolo. Ma le due definizioni si riferiscono evidentemente al presente e riguardano quindi l’italiano di oggi, nel suo stato e nelle sue funzioni attuali, mentre noi eravamo rimasti al latino classico e al latino volgare di circa 1500 anni 5 prima. Occorre vedere cosa sia loro nel frattempo accaduto.

I dialetti italiani sono quelli che hanno sofferto di una maggiore frammentazione politica e di più rilevanti difficoltà di comunicazione, con un lascito di un mosaico di idiomi locali, tutti derivati dal latino, ma ognuno per una strada particolare. Questi idiomi sono stati chiamati anticamente ‘volgari’ per differenziarli dal latino, poi, più tardi, sono stati invece chiamati ‘dialetti’ ricorrendo a un termine più scientifico di origine greca. Il latino volgare che si parlava sul suolo italiano, isole comprese, si divise in quattro gruppi linguistici, ciascuno suddiviso in alcune ulteriori varietà: 

  1. Italiani settentrionali, a loro volta divisi in tre varietà (gallo italici, veneti e istriani)
  2. Italiani centro-meridionali, in cinque varietà (toscani, mediani, meridionali e meridionali estremi)
  3. Sardi, che si dividono in due varietà (settentrionali e centro meridionali)
  4. Retoromanzi, in tre varietà (friulano, ladino dolomitico e, nei Grigioni, romancio)


Questo livello semplificato di suddivisione risulta però molto superficiale e non dà ragione del fatto che, parlando in dialetto stretto, come si farebbe in famiglia o al bar, due italiani del nord neanche troppo distanti, tipo un genovese ed un bresciano, non si capirebbero. La mia personale esperienza, risalente solo alla fine del secolo scorso ma forse ancora confermabile, mi induce a riportare una testimonianza diretta a proposito. Attraversavo per lavoro, quasi quotidianamente, l’Adda da Trezzo (in provincia di Milano) a Capriate (provincia di Bergamo), su un ponte stradale che univa le due provincie (sotto c’era ancora quello romano, funzionante ed alternativo quando il primo fu pericolante per qualche tempo). Mi capitava una volta di bere il caffè in un bar prima del ponte e una volta in un bar sulla sponda opposta: la mia ordinazione al banco era in italiano, ma nei due locali udivo parole, suoni e intonazioni che nulla parevano avere in comune, altro che stessa origine neolatina! Cento metri in linea d’aria! Da una parte un milanese arioso, un po’ rustico, mezzo brianzolo con la z sorda, che già per me perdeva parte della comprensione, dall’altra un bergamasco, per altro meno cavernoso rispetto all’idioma valligiano. Per uno dei tanti misteri linguistici avrei trovato meno differenza tra il vociare in un bar milanese e quello di uno galiziano a duemila chilometri di distanza, mentre lì due comunità, stanziate a tiro di voce, assoggettate per duemila anni a agli stessi padroni, entrate insieme nell’Italia unita, appartenenti alla stessa regione, avevano conservato dai tempi di Cesare, i loro distinti idiomi, assieme alle loro distinte identità culturali: nei bar sulle due sponde dell’Adda chi non parlava leggeva il giornale, il Corriere da una parte, L’Eco di Bergamo dall’altra.

Aggiungerei a questo punto un’ulteriore considerazione a conferma del fatto che non siano stati gli stranieri a corrompere l’italiano sino a farne dialetti, ma che questi siano o siano stati vere e proprie lingue derivate da latino: i dialetti sono stati e sono in grado di assorbire a loro volta nel loro vocabolario e nel linguaggio comune parole provenienti da altre lingue, dall’italiano, lingue straniere, creando, se necessario, neologismi propri.  Anche qui attingendo alla memoria personale e potendo contare su un lungo impiego dei dialetti parlati nei luoghi da me frequentati (Milano e Oltrepò pavese) e dalle persone a me vicine, ricordo benissimo che i miei genitori, parlando in dialetto, parlavano del colore di un tailleur che era nell’armoir, cercavano uno chaffeur per farci portare dalla stazione di Stradella a Zenevredo, dove io ero incaricato di mettere l’acqua nella petinouse. Gli stessi termini, francesismi, erano allora usati anche in milanese e in italiano, a conferma dell’equivalenza tra lingue e dialetti. E per un dialetto italiano, anche l’italiano è fonte di acquisizioni e di neologismo: i dialetti stabilizzati come nella prima metà del diciannovesimo secolo, con l’avvento di nuovi strumenti nell’uso comune, hanno dovuto acquisire nuovi vocaboli, allo stesso modo come si sta facendo oggi in italiano con centinaia di termini inglesi e lo hanno fatto lasciando inalterato il termine quando risultava estraneo alla forma e alla fonetica del termine (radio), adattandolo per similitudine quando era possibile (television). Talora alcuni termini sono stati rifiutati e gli oggetti erano indicati con termini simili o con un giro di parole, come nel caso, per esempio, di “stadio”, per il quale, nella frase “andare allo stadio”, per la quale si usava il corrispondente di “andare a vedere la partita”, dando per scontato il riferimento ad una precisa struttura, “andare a San Siro” o, se era uno stadio generico, “andare al campo sportivo”, questo, si badi bene, anche se aveva le tribune (“Campo Giuriati”). Curiosamente, ma non troppo, anche alcuni termini moderni, legati al progresso meccanico e fortemente connessi all’attività agricola e quindi utilizzati laddove l’uso del dialetto era pressoché obbligato e più fortemente radicato, sono stati rifiutati e gli oggetti definiti con giri di parole creati per l’occasione. Machina era, in Oltrepò, un termine generico riferito di volta in volta alla trebbiatrice noleggiata per sgranare il frumento e il mais o alla schiacciatrice per l’uva della vendemmia, cessato l’impiego dei piedi. Con machinëta si indicava invece il cavatappi, oggetto che a Milano, dove dell’Oltrepò si aprivano le bottiglie, era riuscito a ricavarsi un vocabolo esclusivo come tirabuscion (che si legge “tirabüsciun”), ove il buscion è il “turacciolo”, che si trova scritto anche boscion (che si leggerebbe “busciun”).

NOTE

(1) Da: La difesa del latino nel Cinquecento – di Federica Gara – Editore Felici 2014 –

“In questo libro si fa luce su un aspetto poco studiato della questione della lingua del Cinquecento: il lungo e serrato dibattito tra quanti volevano allargare ambiti d’uso e pubblico del volgare e quanti sostenevano il latino come ‘lingua viva’ dei dotti, capace di crescere ancora nel lessico man mano che le scienze e la storia imponevano nuove parole, e con ciò capace non solo di perpetuare la concezione umanistica della lingua e della cultura, ma anche di difendere l’identità culturale dell’Occidente cattolico. La visione dei latinisti è indagata attraverso il dialogo “De linguae latinae usu et praestantia” di Uberto Foglietta (1574), il trattato più maturo e completo dell’intero corpus analizzato. A sostenere il volgare, oltre alle voci note di Bembo, Tolomei, Speroni e Varchi, vi sono quelle di Muzio e Citolini, cui si contrappongono quelle dei latinisti Amaseo, Calcagnini, Florido e Sigonio. La dialettica tra volgaristi e latinisti illumina sia le teorie linguistiche dell’epoca sia la politica culturale di vari stati italiani, in particolare dello Stato della Chiesa negli anni della Controriforma”.

(2) – Classico, anche se banale, uno tra migliaia di esempi: gruccia ha contemporaneamente, come regolari sinonimi in italiano: stampella, bastone, ometto, omino, appendiabiti, attaccapanni, portabiti.  Pare abbia ispirato Massimo Boldi nel tormentone “Come dite voi a Milano?”

(3) La definizione di Vicino, Medio ed Estremo Oriente può costituire un esempio di cambiamento di una lingua nel corso di pochi decenni, anche per indicare, col nome proprio, precisi territori. Ricordo che la radio collocava la crisi di Suez (1956) nel Vicino Oriente, l’India di Nehru nel Medio Oriente, mentre dall’Estremo Oriente arrivavano notizie sui francesi in Vietnam e sull’imperatore del Giappone. Oggi sento e leggo che Medio Oriente è già l’Europa di sud-est (forse dall’inglese Middle East), l’Asia Occidentale e l’Egitto. E la stampa nostrana ha diffuso anche da noi questo termine, ingenerando, almeno per quanto mi riguarda, una certa confusione e dimenticando che la distanza varia a seconda del luogo da dove la si misura. Se per noi è Medio Oriente già l’Egitto (che caso mai è a sud), il Vicino Oriente dov’è, a Tirana?

(4) – Da: “Quando, come e dove è nato l’italiano” – Lezione con il prof. Giuseppe Patota – Università di Siena – Dipartimento di Scienze della Formazione, Scienze umane e della Comunicazione interculturale dell’Università di Siena – “Cicerone non soltanto scriveva in un modo e parlava in un altro, ma non scriveva sempre allo stesso modo e faccio il nome di Cicerone perché Cicerone è considerato uno dei più illustri ed eleganti se non il più illustre ed elegante dei prosatori latini. Insomma, Cicerone non adoperava lo stesso latino quando scriveva o preparava le sue orazioni, quando componeva opere filosofiche e quando invece scriveva le lettere ai agli amici e ai parenti: in questo caso adoperava un latino fatto anche di termini e di espressioni familiari e della diversità di questi due latini, da lui stesso adoperati è perfettamente consapevole. In una data che non è stato possibile stabilire, in una delle tante lettere indirizzate ai parenti e gli amici, egli scrive a uno di questi suoi amici, cui chiede se il linguaggio con il quale gli si rivolge non sia plebeo.   

(5) – Attenzione, però: Manzoni, in realtà, nel suo “Sentir Messa”, aveva proposto il milanese come lingua nazionale: «Ora una lingua noi l’abbiamo: lingua provinciale, lingua di municipio, lingua non nazionale, dialetto, come uno vuole; ma che tira avanti da buon tempo, e ha avuto scrittori […] più di nessun altro dialetto d’Italia […] e ad ogni modo serve a noi, ci rende quel servizio, fa quell’effetto che da una lingua s’aspetta e si richiede». Ah, se avesse dato seguito al principio… Quindi lo studioso Alessandro Manzoni nella vita quotidiana è Don Lisander e lui stesso ce ne rende un prezioso e simpatico quadretto nel brano riportato qui di seguito (Morgana, op. cit.).
«Ma Don Lisander ha raccontato che lui conosceva tre lingue: il latino e il francese e il milanese, quest’ultimo parlato in famiglia, per strada e nei circoli. Il suoi capolavori non li ha quindi scritti in madrelingua, ma con una lingua che non era la sua e che ha dovuto studiare, una lingua dedicata, più completa, moderna ma già storicamente affermatasi, adeguata ad esprimere il massimo dei concetti, come era avvenuto in occasione degli scritti in provenzale. Manzoni, nel suo inedito trattato “Della lingua italiana”, ci ha lasciato un indimenticabile quadro delle occasioni in cui «per necessità» accadeva «di dovere passare dal consueto milanese all’italiano» con interlocutori d’altre regioni:
Supponete dunque che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo, in milanese, del più e del meno. Capita uno, e presenta un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette di parlar milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima; dite, dite se ci troviamo in bocca quell’abbondanza e sicurezza di termini che avevamo un momento prima; dite se non dovremo, ora servirci d’un vocabolo generico o approssimativo, dove prima s’avrebbe avuto in pronto lo speciale, il proprio; ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora tirar a indovinare, dove prima s’ era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava; veniva da se; ora anche adoprar per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con un: come si dice da noi.» 
Il quadretto stupendo che Manzoni fa della sua esperienza domestica con gli amici e i visitatori mi ha ricordato analoghe esperienze della mia infanzia che, dopo così autorevole sdoganamento, mi sento di riportare. sempre si parva licet componere magnis.
Pranzo della domenica un po’ allargato, come non capitava spesso. Oltre al sottoscritto ed ai miei genitori, potevano esserci mia zia Rosa, di Stradella ma che, trasferitasi da giovanissima in centro a Milano parlava ormai solo in italiano, anzi a volte un po’forbito, pur intendendo benissimo il dialetto dell’Oltrepò pavese; mia nonna che parlava solo questo; un prozio suo fratello che, trasferitosi da giovane a Rogoredo e sposatosi con una ragazza di quel quartiere, parlava con lei e con tutti in un milanese acquisito, senza possederne l’inflessione tipica e il vocabolario completo, cosicché doveva talora inserire dei termini che conservava dalla sua infanzia oltre padana e che non erano affatto milanesi, come ad esempio, lo avrei scoperto molto tempo dopo studiando un po’ il milanese, il plurale dei diminutivi. Poi poteva esserci la signora Giulia, milanese doc che parlava solo in milanese, anche ai bambini. Di solito arrivava per il caffè, alla fine del pranzo e ascoltavamo insieme alla radio “Cicciarem on Ciccinin” o “Quater pass in Galeria”, importanti trasmissioni radiofoniche dialettali in onda negli anni Cinquanta e Sessanta, fatte di scenette comiche in dialetto, scritte da autori del calibro di Attilio Carosso e Angelo Frattini e interpretate da attori quali Evelina Sironi e Mario De Angelis. Poteva aggiungersi inoltre una vicina di casa, la signora Olga, forse originaria del genovese, che parlava solo italiano e che faticava a capire i nostri dialetti: quando ci si accorgeva di averla linguisticamente trascurata, si provvedeva ad una rapida, se pur tardiva, traduzione. Qualche volta c’era una coppia di zii, qualche cugina, altre volte un visitatore diverso, ma il quadro sin qui descritto è sufficiente a delineare il comportamento del gruppo e dei singoli in funzione del nuovo arrivato, dei presenti, del discorso e… dei bicchieri svuotati. Aggiungo solo due frangenti particolari che ho riconosciuto proprio identici nel quadretto manzoniano: uno è il cambiamento di linguaggio all’entrata in sala di un nuovo soggetto, proprio in segno di creanza; l’altro è il comune ricorso a quel come si dice da noi citato da Manzoni, ma ribaltato, come già citato a proposito delle grucce: ad un certo punto del discorso un inevitabile ed interrogativo intercalato del tipo come disii vialter? o më dsev vialtër? quando chi parlava in dialetto, rendendosi conto che la parola che stava per pronunciare sarebbe stata ostica per l’ospite, chiedeva aiuto a questi per trarsi dall’impiccio di un comportamento potenzialmente sgradito.

FONTI
Lezioni online

PRIMA LEZIONE DI FILOLOGIA – Antonio Pioletti – Università di Catania
LETTERATURE IN VOLGARE – NASCITA DELLE LETTERATURE EUROPEE – Maria Strocchia
NASCITA DEI VOLGARI – Lezione 1 – Eni Landi
LETTERATURA ITALIANA – LE ORIGINI: CONTESTO STORICO E CULTURALE – Tiziana Otranto
LE MILLE LINGUE DI ROMA – Luca Serianni
L’ITALIANO DAL LATINO A OGGI – LINGUA E DIALETTO – Le Pillole della Dante – Luca Serianni
IL PLURILINGUISMO MEDIEVALE E LA COSCIENZA DISTINTIVA DEGLI IDIOMI ROMANZI – Scuola di Filologia Patavina – Furio Brugnolo
L’ITALIANO DAL LATINO A OGGI – MANZONI E LA LINGUA ITALIANA – Le Pillole della Dante – Luca Serianni  
QUANDO, COME E DOVE È NATO L’ITALIANO – Università di Siena – Giuseppe Patota
STORIA DEL LATINO: LA VERA PRONUNCIA DEGLI ANTICHI ROMANI – Scripta Manent – Roberto Trizio

Bibliografia per immagini
Elenco degli scrittori in dialetto milanese
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