Si parva licet componere magnis
Non so ancora se il passato remoto nelle parlate galloromanze dell’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia ed Emilia, in particolare) non sia mai stato presente perché i Romani non seppero trasferircelo ed imporcelo duemilatrecento anni fa, oppure se per un certo periodo esso sia stato invece presente per poi decadere, come avvenuto ad altri fenomeni linguistici. Il passato remoto latino, quindi, fu sconfitto sulla linea gotica o, se riuscì a passarla, fu poi fatto prigioniero o costretto alla macchia in una pianura padana quanto mai inospitale, così ancora coperta da umidi boschi.
Sta di fatto che qui, ancor oggi, qui, il passato remoto non si usa, nonostante tutti lo abbiamo studiato ed imparato a memoria, compreso quello dei più ostici verbi irregolari, dalle elementari in su: esso è rimasto in quei libri e in quei compiti a casa, come una qualunque declinazione di rosa-rosae. Nessuno di noi ha mai detto o direbbe, tornando a casa in ritardo: “Ci fu un incidente in autostrada e fui costretto ad uscire a Dalmine: ci misi due ore per fare dieci chilometri!”
Solo nella lingua scritta parrebbe rispettata la regola del corretto uso del passato remoto, ma uso il condizionale perché se ciò è vero nei romanzi, negli altri settori della comunicazione, per quanto autorevoli od ufficiali, è sempre il passato prossimo a prevalere. Basterebbe leggere un qualunque libro di saggistica: “Il tutto è cominciato quando le imprese hanno scoperto la capacità di innovare (cinquant’anni prima); oppure: “Già agli inizi degli anni Ottanta c’è stato un tentativo di…” Basterebbe ascoltare l’ultimo telegiornale della sera: “Ieri il presidente della Camera ha incontrato i capi delegazione dei partiti; oppure: “Un mese fa sono iniziate le vaccinazioni”.
Come si può constatare il substrato celtico prevale abbondantemente, non c’è verso: addirittura influenza la comunicazione a livello nazionale e posso immaginare che da Firenze a Lampedusa quelle forme verbali non suonino molto famigliari.
Ma quanto sopra non è certo per segnalare un fatto già noto ed evidente nel linguaggio odierno: esso è solo la premessa ad una particolare constatazione, riscontrabile spostando indietro di mezzo secolo il confronto tra regola linguistica e parlata-scrittura corrente, che potremmo definire di “regressività del passato remoto”.
A margine di una ricerca sulla “Questione delle maglie” finalizzata a ricostruire i colori di tutte le maglie “da casa” delle maggiori squadre italiane prima dell’avvento del vezzo odierno, mi capita di leggere, in MILANINTER di lunedì 21 settembre 1953, una bellissima cronaca scritta da Enrico Crespi sulla partita Atalanta-Inter del giorno prima, vinta per inciso dall’Inter per due a zero, ove subito ritrovo la ricercata testimonianza circa l’aspetto cromatico, in quanto i bergamaschi risultano essere “scesi in campo con una fiammante maglia giallorossa”, indossata per dovere di ospitalità ed in evidente ossequio ai colori di Bergamo. Sempre in tema di maglie, ma riguardo all’aspetto dei numeri, Crespi racconta poi di come l’Atalanta si sia posta in campo con una formazione “votata al catenaccio, in barba ai numeri delle maglie”, fornendo anche qui l’evidenza “calda” del profondo, storico e professionale significato dei numeri sulle maglie, con il quale il giornalista riesce a comunicare con il lettore in modalità semplice, chiara e condivisa, utilizzando un linguaggio simbolico e codificato, del quale lo sportivo conosce la chiave attraverso la quale riconoscere in ogni numero da 1 a 11 il significato del corrispondente ruolo tecnico in campo e di quello immaginifico nella mente.
Ecco alcuni estratti dal resoconto della partita:
Quindi, la sera di domenica 20 settembre 1953, Enrico Crespi scrive questo articolo per il suo giornale che sarebbe apparso in edicola il mattino dopo, impiegando solo ed esclusivamente il passato remoto per fare il resoconto della partita.
Per contro, dopo un salto temporale di quasi settant’anni, sul Corriere della Sera di mercoledì 27 gennaio 2021, il giorno dopo la recente vittoria dell’Inter nel derby sul Milan, Mario Sconcerti fa l’analisi della partita e racconta che:
Quindi, come avete visto, una fiera del passato prossimo in un pezzo sportivo del tutto confrontabile con quello votato al passato remoto scritto da Crespi. Sono passati settant’anni, ma tra i due giornalisti neanche una generazione, essendo infatti Sconcerti nato quando Crespi aveva ventitré anni.
Ma la curiosità più grande è dovuta alla considerazione che, quando la gente per strada e nelle case parlava ancora prevalentemente in dialetto e quindi senza passato remoto, mancante quindi anche quando si esprimeva in italiano, la lingua ufficiale e corrente dei giornali popolari e della comunicazione in genere di allora usava il passato remoto, mentre oggi, quando il dialetto è quasi del tutto scomparso nelle parole e nel pensiero, anche nella comunicazione “ufficiale” si impiega il passato prossimo, violando del tutto una regola linguistica fondamentale, che, qualora non osservata per esempio in inglese o spagnolo, costituirebbe errore da matita blu.
Se un’allora insufficiente istruzione scolastica, accompagnata ad una limitata possibilità di accesso alle fonti divulgative, può spiegare l’impiego ufficiale e quasi ostentato del passato remoto, quando esso era del tutto estraneo alla parlata della gran parte della gente, che ancora ragionava e parlava in dialetto, è più difficile comprendere l’evidenza opposta: cioè quella che oggi, con un’istruzione di base generalizzata e profonda, con il libero ed illimitato accesso alle fonti divulgative e con un residuale numero di persone che conservano ancora come forma primaria di espressione il dialetto, sia invece l’impronta di quest’ultimo ad aver progressivamente influenzato la parlata di media autorevoli ed addirittura la scrittura corrente dei giornalisti, in evidente controtendenza rispetto alla sua diffusione nel tempo e nei territori: ad un Manzoni dei nostri giorni non sfuggirebbe la necessità di una nuova e vigorosa sciacquata in Arno o, viceversa, di un definitivo accantonamento del passato remoto nell’ampia soffitta delle forme arcaiche.