IL RACCONTO
Dai tanti racconti di guerra e paura ascoltati da bambino, fin da piccolo entrò nella mia mente questa parola: “Mongoli”. Mi fu spiegato di questi terribili uomini che circolavano nell’Oltrepo durante l’occupazione tedesca, compiendo ogni tipo di violenza, di strage, di uccisione. Soprattutto percepii nei racconti della nonna e della mamma la paura continua di un’imminente calata in città di questi mostri, delle notti passate in attesa dell’inevitabile, delle notizie allarmanti che arrivavano dalle montagne e dalle colline dietro Stradella. Una paura che si sommava a tutto quello che c’era stato e ancora c’era: la fame, la paura, le bombe sulla stazione, i Tedeschi, le brigate nere, la sicherheit, le SS, il dolore per figli fratelli, mariti e fidanzati morti, dispersi, prigionieri. Una minaccia terribile che era giunta ad incombere proprio quando le sorti della guerra lasciavano presagire una conclusione non lontana della lunga tragedia.
Diventando più grandicello ed avendo ormai studiato e letto un po’ di storia, arrivai a farmi un’idea abbastanza precisa di quello che era accaduto: il fascismo, la guerra, la sconfitta, la caduta del fascismo, la Resistenza e la liberazione; poi le alleanze, chi stava con chi, la Russia, l’America,il Giappone, la Francia, l’Inghilterra, la Grecia, la Jugoslavia, l’Ungheria… Ne sapevo abbastanza per contestare alla nonna e alla mamma quel racconto dei “Mongoli”: non poteva essere. La Mongolia non c’entrava con la guerra qui in Italia, caso mai col Giappone. Neanche i Russi, che potevano avere dei reparti di origine asiatica, erano arrivati fino in Italia a fare la guerra. Ma loro insistevano che invece era tutto vero e io alla fine concessi loro una soluzione di compromesso, consistente nell’accettare la veridicità delle voci, ma l’insussitenza reale dei fatti: in un epoca di paura e di morte era facile che una falsa notizia nata per caso cominciasse a diffondersi, ingigantendosi sempre di più. Anzi, più volte citai questa storia dei “Mongoli” in qualche discorso, proprio come esempio di come in certe situazioni le notizie false, partendo da una singola fonte, anche in buona fede, e passando di bocca in bocca, tendano ad assurgere a fatto storico di dimensioni anche considerevoli, come avviene per esempio, con le opere dei santi.
Allora non c’era internet, i libri di storia non ne parlavano e sui giornali non avevo mai incrociato cenni di eventi legati ad una presunta invasione di Mongoli nell’Oltrepo pavese o in altra parte d’Italia, così come nulla avevo trovato nemmeno sui libri che si occupavano di storia e storie della Resistenza. Fino al 2001, quando, leggendo “La traversata”, di Paolo Murialdi, incontrai quella parola e un cenno alla storia che ci stava dietro: una confusa vampata di emozioni mi fece ritornare subito a quei racconti dell’infanzia e alla voglia di saperne di più. In rete allora trovai in abbondanza quello che c’era da sapere: le memorie, le testimonianze, gli approfondimenti, i libri e l’apertura di un contesto più ampio e ancor più drammatico nel quale riconsiderare il già noto cospicuo spessore della Resistenza nell’Oltrepo.
LA STORIA
Dunque era vero. I “Mongoli” formavano la 162a Divisione Turkestan della Wehrmacht, composta da prigionieri o disertori dell’Armata Rossa che, provenienti da Kirghizistan , Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Ucraina e da altre terre asiatiche della sconfinata Unione Sovietica, scelsero di collaborare con i Tedeschi e si arruolarono in questa temibile unità, comunque comandata da ufficiali tedeschi. La forza della divisione era consistente, essendo composta da tre reggimenti di fanteria, uno di artiglieria, un battaglione ed un reparto divisionale, un battaglione pionieri, un reparto di Panzerjäger (cacciacarri), un reparto ricognizione, un reparto informazioni, un reparto di sussistenza. in tutto all’incirca 15-20.00o uomini. La gente notò in essi i caratteri somatici tipici dell’Asia centrale e coniò il termine “Mongoli”, con il quale si diffuse a tutta la zona, terrorizzando le popolazioni locali.
L’approfondimento di questa storia mi ha consentito anche di scoprire anche un’altra particolarità ad essa legata: quella che, in occasione della difesa delle “Repubbliche Partigiane” di Bobbio, vide i partigiani dover eccezionalmente affrontare una forte unità dell’esercito regolare tedesco, supportata da reparti repubblichini, in una rischiosissima battaglia in campo aperto, senza alcuna copertura del terreno e della vegetazione.
I memoriali, gli studi, gli approfondimenti sono poi risultati abbondanti, una volta fatta la scoperta, e le ricostruzioni mi furono facili per la conoscenza dei luoghi che avevo percorso tante volte senza sapere cosa avevano visto. Il dispiacere fu anche quello di non poterne più parlare con la nonna, mentre alla mamma, che c’era ancora, non ne feci cenno, non ne ebbi il coraggio e ciò adesso, mentre ne scrivo, mi accresce il solito, maledetto rimpianto di parole mai dette quando si era ancora in tempo.
Mezza consolazione è stato infine l’atto di giustizia ritrovato in fondo alla pagina di Wikipedia: “L’unità si consegnò poi alle forze vittoriose degli Alleati nella zona di Padova. In accordo con quanto stabilito durante la conferenza di Jalta, le forze anglo-statunitensi riconsegnarono tutti i prigionieri di guerra di origine sovietica all’URSS, ivi compresi i membri della 162a divisione: quasi tutti furono poi condannati a molti anni di lavori forzati nei gulag sovietici.”
L’altra metà di consolazione se l’è mangiata il fatto che su quei treni verso la Siberia non c’era nessun complice italiano di quei “Mongoli”.
UNA TESTIMONIANZA
Luciano Manzi, ex partigiano piemontese, ricorda la sua esperienza partigiana nella 3^ Divisione Garibaldi “Lombardia Aliotta”, la brigata operante nell’Oltrepò pavese.
In questa intervista descrive come si svolgevano le azioni di guerriglia partigiana e racconta alcuni episodi: dalla battaglia di Varzi del settembre 1944 contro il Battaglione “Leonessa” della Divisione Alpina “Monterosa” al rastrellamento del novembre 1944 che mise a dura prova le forze antifasciste.
Scrive Luciano Manzi nella sua autobiografia, Una vita per gli ideali di libertà e socialismo (AGIT, Beinasco (TO) 2003):
“… nel luglio del 1944 venne fondata la 3^ Divisione Garibaldi Lombardia con le Brigate “Crespi” e “Capettini”. In settembre, la neonata divisione accorporò anche la Brigata “Matteotti” e la “Pisacane”.
Il 19 settembre del 1944 tutta la 3^ Divisione Garibaldi era schierata attorno alla città di Varzi. Il mio distaccamento venne schierato sul monte Cucco, proprio in alto sul cucuzzolo, sopra il centro della città.
Qui non si trattò più di guerriglia partigiana, ma piuttosto di scontro aperto, frontale, tra un esercito regolare e quello partigiano che, per la prima volta, rischiava grosso. Non si trattava più di imboscate, “mordi e fuggi”, ma di schierare i pochi mezzi e tutte le forze che avevamo per battere l’avversario prima che ricevesse altri rinforzi dai tedeschi. Di fronte avevamo duecentoquaranta alpini della Monterosa, qualche decina di brigatisti neri e qualche tedesco.
[…] Dal 18 al 21 settembre la città di Varzi venne cinta d’assedio con settantaquattro ore di combattimenti ininterrotti. Di giorno, approfittando del fatto che le montagne attorno alla città di Varzi sono brulle e pietrose, gli alpini della Monterosa ci sottoposero a bombardamenti continui a colpi di mortaio.
In uno di questi bombardamenti morì il nostro comandante Enzo Togni, a causa di una scheggia che gli tranciò di netto la carotide. Era vicino a me e morì di colpo, senza un lamento. I bombardamenti sotto i colpi di mortaio sono spaventosi. […]
Il 23 novembre 1944 la repubblica partigiana dell’Oltrepo fu investita da un grande rastrellamento condotto dalla famigerata 64^ Turkestan Division del generale Wlassow, formata da cosacchi del Volga, chirghisi, calmucchi e mongoli, inquadrati nelle SS tedesche con reparti di brigate nere, bersaglieri della Littorio, alpini della Monterosa e marò della San Marco, che attaccarono le nostre posizioni.
Già tre giorni dopo le truppe entravano nelle case. Si sentivano cannonate che echeggiavano sui monti, i partigiani e i civili venivano torturati e impiccati. Ai “mongoli” (la gente li chiamava così) fu concesso di rubare nelle case, violentare le donne e uccidere a loro piacimento. […]”
(da: memorieincammino.it)
PER SAPERNE DI PIU’:
Ugo Scagni- Fascismo e antifascismo in provincia di Pavia
Franco Costa – Appunti per la storia della Resistenza nell’Oltrepo pavese
Arno Faravelli – “La confraternita del pozzo”: la Sicherheit Abteilung
Ivano Tajetti – Il conte partigianoUgo Scagni – La resistenza scolpita nella pietra
https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_di_Bobbio
La repubblica partigiana di Varzi
Marco Bonacossa – Criminali di guerra pavesi. La Sicherheits Abteilung